In copertina: fr.Vincenzo Luise, missionario in Burkina Faso, 1970. Foto d’archivio
Terza Giornata Internazionale per le Vittime dei Disastri
13 Ottobre 2014
Per le istituzioni camilliane
Uscire fuori da logiche istituzionali per collaborare con le comunità locali “uniti nella giustizia e nella solidarietà”
Continuiamo a riflettere sul tema della fragilità, toccato nel precedente articolo ,rivolgendoci questa volta alle istituzioni camilliane.
Non avere paura della fragilità può significare, per le istituzioni camilliane, uscire fuori da logiche istituzionali che si fermano alla soglia dell’ospedale nell’intervento ma che hanno voglia di lavorare con le comunità locali “uniti nella giustizia e nella solidarietà”.
“Non aver paura della fragilità” per le opere, le attività e i progetti camilliani vuol dire entrare in sintonia con la dimensione profonda della propria identità carismatica, ben sintetizzata in un passaggio forte – fino ad essere quasi caustico di fronte a tante nostre tiepidezze – di papa Francesco in Evangelii Gaudium: «La Chiesa “in uscita” è una Chiesa con le porte aperte. Uscire verso gli altri per giungere alle periferie umane non vuol dire correre verso il mondo senza una direzione e senza senso. Molte volte è meglio rallentare il passo, mettere da parte l’ansietà per guardare negli occhi e ascoltare, o rinunciare alle urgenze per accompagnare chi è rimasto al bordo della strada. A volte è come il padre del figlio prodigo, che rimane con le porte aperte perché quando ritornerà possa entrare senza difficoltà.
Oggi e sempre, «i poveri sono i destinatari privilegiati del Vangelo», e l’evangelizzazione rivolta gratuitamente ad essi è segno del Regno che Gesù è venuto a portare. Occorre affermare senza giri di parole che esiste un vincolo inseparabile tra la nostra fede e i poveri. Non lasciamoli mai soli.
Usciamo, usciamo ad offrire a tutti la vita di Gesù Cristo: preferisco una Chiesa accidentata, ferita e sporca per essere uscita per le strade, piuttosto che una Chiesa malata per la chiusura e la comodità di aggrapparsi alle proprie sicurezze. Non voglio una Chiesa preoccupata di essere il centro e che finisce rinchiusa in un groviglio di ossessioni e procedimenti. Se qualcosa deve santamente inquietarci e preoccupare la nostra coscienza è che tanti nostri fratelli vivono senza la forza, la luce e la consolazione dell’amicizia con Gesù Cristo, senza una comunità di fede che li accolga, senza un orizzonte di senso e di vita. Più della paura di sbagliare spero che ci muova la paura di rinchiuderci nelle strutture che ci danno una falsa protezione, nelle abitudini in cui ci sentiamo tranquilli, mentre fuori c’è una moltitudine affamata e Gesù ci ripete senza sosta: «Voi stessi date loro da mangiare» (Mc6,37)».
Rispondere con le nostre risorse – non solo di natura economica o materiale – agli uomini e donne colpiti da calamità e disastri che straziano le cose, la storia e gli affetti, vuol dire disporsi a convertire in modo profondo le istituzioni camilliane, che piano piano cesseranno di essere istituzionali, per divenire maggiormente comunionali, meno centrate e più aperte, più disposte a condividere – rallentando – il passo incerto di chi ha perso tutte le certezze, più disponibili a vivere l’immediatezza del bisogno e la gratuità dell’offerta verso chi sta di fronte e che non può offrire nulla in cambio.
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