di Luigi Guccini scj
I/ – ANDARE PIÙ IN PROFONDITÀ
1/ – Gli aspetti “positivi”, cioè?
Parlando di Vita Consacrata (VC) bisognerebbe indugiare innanzitutto sugli aspetti positivi emersi in questi anni. Sono certamente molti e promettenti, tali da toglierci ogni nostalgia o tentazione di tornare al passato, se mai questa tentazione ci fosse. Non posso indugiare su questo e mi limito a due osservazioni:
- quando si guarda al “positivo”, si tratta di prospettive molto belle e promettenti ma che stanno davanti a noi come compito e strada da percorrere, più che come frutto già maturo;
- non indugerò su questo, ma non farò per questo un discorso negativo. Essere positivi mi sembra significhi tre cose:
– essere convinti che la strada da percorrere c’è;
– saperla individuare;
– accettare di percorrerla e avere la forza per farlo.
Questo esige che si abbia il coraggio di chiamare le cose con il loro nome, senza nascondere i problemi. Che è poi uno dei segni importanti della speranza cristiana e della forza che ci viene dalla fede: saper affrontare i problemi, perché si è capito che la risposta c’è.
Non servirebbe imporsi di parlare sempre “positivamente”, nel senso di dire solo ciò che è bene. Ne verrebbe – come spesso capita – un discorso generico, per niente convincente e alla fine falso. Vorrei non fare un discorso del genere.
2/ – L’interrogativo che ci interessa
L’interrogativo che pongo è il seguente – è un interrogativo scontato, ma attende risposta, ed è su questo che vorrei fermarmi: si è lavorato tanto in questo postconcilio, nessuno come i religiosi/e l’ha fatto, e siamo a quello che si è soliti chiamare rinnovamento incompiuto, ed è un eufemismo.
Da che cosa dipende? dal fatto che certi processi hanno inevitabilmente un percorso lento, e bisogna semplicemente “avere pazienza”; oppure abbiamo mancato in qualche cosa e occorre una correzione di rotta? Vorrei fermarmi precisamente su questo.
Prendo appunto di riferimento l’affermazione di un mio carissimo amico, Giamberto Pegoraro, dei Giuseppini del Murialdo. Parlando ai suoi confratelli sulla situazione della Vita Religiosa (VR) di oggi, concludeva domandandosi: che fare? e rispondeva così:
«Mi pare che il nostro sia ancora il tempo del silenzio, dell’ascolto, della riflessione. Per ora non è il fare che conta (continuiamo pure a fare quello che stiamo facendo). Per ora conta capire ciò che Dio vuole da noi. E’ in tempi in cui “la parola del Signore è rara” (1Sam 3,1) che vengono mobilitati i profeti».
Molto saggio e molto interessante. Vi trovo l’invito a una lettura sapienziale del cammino di questi anni. Non una lettura sociologica e neanche semplicemente teologica, ma sapienziale. Tipo quella che ha espresso il papa Giovanni Paolo II nel suo penultimo libro quando, parlando del marxismo, lo definisce “un male necessario”. Anche noi conosciamo tanti mali oggi, sia come chiesa che come VR, stiamo attraversando un momento di grande povertà e anche di buio.
Che cosa ha da dirci questo? che cosa nasconde?
c’è una parola di Dio per noi in questo? qual è?
Lettura sapienziale è questo.
Ci aiutano anche due icone. La prima è quella di san Francesco. In un tempo molto simile al nostro per i grandi cambiamenti e il bisogno di riforma nella chiesa e nella VR, egli capì che la strada poteva essere una sola: ritornare al Vangelo. Erano troppo grandi i problemi e le sfide, perché la risposta potesse trovarsi in una semplice riforma/rinnovamento della VR. Solo il vangelo poteva avere potenza di risposta e Francesco come sappiamo ha puntato tutto su questo.
L’altra figura è quella del profeta Elia. Elia ha speso tutte le sue risorse, e l’ha fatto con grande generosità. Ma proprio nel momento di più grande successo – la sua vittoria sui profeti di Baal – vede tutto crollare. E’ cercato a morte e deve fuggire; si sente fallito, è del tutto scoraggiato e vuol morire. Ma Dio lo soccorre con un cibo misterioso e lo porta fino a sé, sull’Oreb. Qui gli si manifesta e tutto ricomincia: il crollo è l’inizio della ripresa.
Noi siamo così, come Elia e san Francesco. Dobbiamo prenderci una sosta, una sosta che ci consenta di andare più in profondità – userò ripetutamente questa sigla – rispetto a tanti percorsi pur importanti già sperimentati.
3/ Abbiamo sbagliato obiettivo?
Vi faccio innanzitutto alcune constatazioni.
a/ Siamo partiti nell’immediato postconcilio con l’aggiornamento. Venivamo da una logica di osservanza ed è stato spontaneo rimanere in questa linea. Tutti gli istituti hanno riscritto le regole e dispongono ormai di una normativa completa in tutti i settori. E tuttavia viviamo in un momento che si potrebbe definire di anomia: le norme ci sono ma non sono prese sul serio, non c’è la receptio. Forse anche per pigrizia, ma soprattutto e semplicemente perché la nuova normativa non è sentita come la risposta che occorre, non è espressiva di ciò che, come religiosi e religiose, si porta nel cuore.
Già l’Evangelica Testificatio ce l’aveva ricordato e oggi lo costatiamo ancora di più: la risposta vera si pone a un altro livello, bisogna andare più in profondità.
b/ La stessa cosa va detta, e con accentuazioni anche maggiori, per la riacculturazione.
Qui c’è di mezzo la missione. Bisognava riacculturare la VC alle mutate condizioni dei tempi. Abbiamo abbandonato tante posizioni e ne abbiamo scelto altre; abbiamo speso enormi risorse nella ristrutturazione delle opere e nella “riqualificazione del personale”.
Ci sono stati anche dei risultati: le opere e i servizi offerti dai religiosi funzionano bene, sono perfino esemplari; ma, come si continua a ripetere, la gente viene a prendere da noi prestazioni e servizi, e le ragioni per vivere le va a cercare altrove. E allora? forse abbiamo sbagliato obiettivo?
Penso che su questo punto dovremmo riflettere di più: noi proveniamo da un passato in cui era molto evidente – nella percezione di tutti e dei nostri stessi fondatori – ciò che spettava ai religiosi. Si trattava di compiti precisi, anche molto importanti, quelli che hanno caratterizzato le grandi opere e i servizi dei religiosi/e soprattutto dall’800 a questa parte.
Oggi non è più così: non è più una “nostra esclusiva” ciò che ci ha caratterizzato fino a ieri nel campo dell’assistenza, della sanità, della scuola, della pastorale e della stessa missione ad gentes, ecc. E tuttavia noi continuiamo e pensarci come se ciò che abbiamo sempre fatto spettasse ancora a noi, e fosse possibile desumere da qui il significato della nostra presenza. In fondo anche il congresso internazionale sulla VR del novembre 2004 è rimasto prigioniero di questa concezione, come dirò.
E’ questa una strada non più percorribile. Tutto ciò che fino a ieri abbiamo espresso attraverso le opere deve fare i conti con il fatto che oggi esse non sono più – nella stragrande maggioranza dei casi – lo strumento adatto per l’opera apostolica. Non solo perché non abbiamo più le risorse per reggerle, ma per la stessa situazione storica, “troppo grande” e complessa per poter essere affrontata da noi a livello del “fare” e dell’organizzazione di servizi nostri.
Una nota anche sulla qualificazione del personale.
La competenza è importante e anche la professionalità è una cosa seria. Ma quando si punta troppo su questo e si arriva, come spesso succede, alla professionalizzazione della VR e della propria identità, allora c’è qualcosa che veramente non funziona. E’ comprensibile che, in un momento come il nostro, in cui è così difficile capire dove e come spendere le proprie risorse, si possa essere tentati di accentuare talmente il ruolo da arrivare a definirsi su di esso, ma poi ci si trova in un vicolo cieco: perché si entra in una logica di competizione e si può essere anche molto bravi, più bravi degli altri, ma a che cosa serve se ci si trova a dare alla gente ciò che può trovare anche altrove?
4/ – Troppo esclusivamente attorno all’aspetto istituzionale
C’è molto bisogno di riflettere su tutto questo. A me sembra che in questi anni abbiamo lavorato troppo esclusivamente attorno all’aspetto istituzionale e continuiamo a farlo.
Non posso indugiare su questa affermazione; richiamo solo un fatto che è anche una “provocazione” e un ulteriore invito alla riflessione. Il fatto è la sproporzione che c’è tra la mole di risorse – in persone, tempo e denaro – impiegate attorno ai problemi istituzionali, e i risultati che si raccolgono.
Qui c’è qualcosa che non funziona. Non so come si possa venirne fuori, ma il problema c’è e fa molto pensare. Se guardiamo ai santi, troviamo un san Francesco che non ne voleva sapere di una regola; la accettò solo in un secondo momento. Quello che gli interessava era il vangelo, il vangelo sine glossa; solo da lì, dopo averlo assimilato in profondità, sarebbe stato possibile definire una particolare forma di vita.
E’ così anche oggi ed è per noi una lezione importante. Il passaggio non è dalla regola al vangelo, ma il contrario. Il primato – in tempo, denaro, risorse e impegno – non va dato ai problemi istituzionali ma alla qualità di vita, sempre da costruire, che ci è data in Gesù. Non voglio entrare nel discorso complesso delle nuove forme di VC e nei movimenti, ma se guardiamo alle esperienze più significative e con maggior impatto tra i giovani, una cosa appare chiara: parlano di Gesù e del vangelo.
Il dispendio di troppe energie attorno alle cose da fare e ai problemi istituzionali poggia su due presupposti che sono tutti da dimostrare, e cioè:
- primo, la convinzione che l’impianto della VR che ci caratterizza sia quello buono, e che si tratti solo di aggiornarlo e… farlo funzionare. Ma non è così; avremmo da tempo risolto i nostri problemi, se fosse così;
- secondo e soprattutto, in tanto nostro darci da fare diamo per scontato che sia a posto, adeguatamente risolto, il problema che veramente conta, quello dei contenuti: la macchina magari gira, ma dentro che cosa c’è? che ne è della sostanza evangelica del nostro modo di vivere?
Quando dico che bisogna andare più in profondità mi riferisco a questo.
Ricordo la mia esperienza di tanti anni alla direzione di testimoni. Di fronte al persistente scollamento tra ciò che veniva maturando nel modo di intendere la VR e il vissuto concreto delle comunità, ci si domandava – così come oggi ci domandiamo – da che cosa dipende. Si rispondeva che è una questione di mentalità: la massa non ne vuol sapere di cambiare e forse neanche lo può. La frase famosa era: deve passare questa generazione… Ma, d’altra parte, non è che le generazioni nuove rappresentino davvero quella novità di cui c’è bisogno, e anche là dove si è accettato di cambiare, non mi pare che si siano raccolti i frutti sperati…
E allora: il problema è cambiare o c’è qualcosa d’altro? E anche se occorre cambiare e determinarsi a scelte nuove – perché è indiscutibile che questo debba avvenire – a quale livello deve intervenie il cambiamento e in ordine a che cosa?
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