di José Carlos Bermejo
Siamo fatti così noi esseri umani: profondamente fragili e deboli, vulnerabili. Ed io sono un essere umano.
La pandemia del coronavirus ha bussato alla mia porta e mi ha colpito. Lo dico fortemente. Lotto contro le conseguenze.
A fine marzo mi sono sentito male, con febbre. Poi si son dati appuntamento gli altri sintomi conosciuti: dolori articolari, diarrea, tosse secca… non ho avuto dubbi nel cominciare l’isolamento, benché non ci fossero metodi diagnostici. E anche la cura, allora riservata solo ai privilegiati, con idrossiclorochina. Ma il virus faceva la sua strada di invasione ed espansione nel mio organismo.
Una visita al pronto soccorso, una diagnosi di compromissione polmonare unilaterale lieve, mi ha permesso di tornare a casa e vivere una settimana di supplizio con tutti i sintomi al massimo della loro espressione e tutto il malessere concentrato nel mio corpo. Poter misurare la saturazione, la temperatura e la pressione, mi tenevano sotto controllo a distanza e grazie alla professionalità e all’amore dei miei compagni sanitari.
Una persistenza tenace dei sintomi, mi ha fatto andare di nuovo al pronto soccorso, ed ora erano i due polmoni compromessi, di modo che sono rimasto ricoverato per una settimana per continuare la cura che già avevo cominciato con azitromicina e, naturalmente, con anti febbrili ed analgesici. Alcuni valori del sangue si erano alterati abbastanza per essere vigilato e il momento critico di portare già da due settimane i sintomi, mi mettevano in posizione di alta vulnerabilità.
Dopo una settimana di ricovero in ospedale, sono tornato a casa con alcuni sintomi, ma in processo di recupero. Mi sento molto fragile e debole, bisognoso di cure e in situazione di isolamento.
Molto bisognoso
La prima esperienza fatta è la profonda necessità di aiuto degli altri per poter stare nel mio alloggio o nella stanza dell’ospedale. Ho sperimentato, come in altri momenti della mia vita, il grande bisogno degli altri per sopravvivere, la piccolezza umana che mi caratterizza, l’enorme vincolo con gli altri per la vita.
Questo mi ha fatto vivere più intensamente il sentimento di ringraziamento verso i miei assistenti, professionisti o compagni di comunità, amici o compagni del Centro. La sollecitudine e la disponibilità mi hanno permesso di assaporare quello che significa lasciarsi curare ed amare con semplicità e naturalezza, così come coniugare molto di più il verbo ringraziare, uno dei più importanti della mia vita spirituale.
Non mi è risultato difficile lasciarmi curare (finora). In realtà, mi sento molto curato nella mia vita. Mi curano in casa, mi curano al lavoro, mi curano in famiglia. Mi dispensano attenzioni e servizi che fanno sì che le mie potenzialità, più o meno visibili o attive, si dispieghino. Gli altri per me, io per gli altri. Gli uni con gli altri in relazione interdipendente che vivo in chiave di salute.
Non sono anziano
Se fossi anziano… di una certa età e secondo il momento e il luogo per ammalarmi, sarei stato escluso dal ricovero ospedaliero e, molto probabilmente, dalle cure. Al mio accompagnatore, al pronto soccorso, avevano dato un po’ di morfina per me, come si è fatto in molti posti.
Uno schiaffo all’etica, almeno quando l’età è diventata –in non pochi luoghi– nel primo ed unico criterio di inclusione o esclusione. Etica in situazione di guerra, ma per pensare e renderci conto di come il paradigma utilitarista può generare distinzioni escludenti e non rispettose dell’uguale dignità di ogni essere umano.
Che l’età sia un elemento in più nei processi di discernimento ed assegnazione giusta dei mezzi limitati e scarsi –più scarsi in alcuni momenti e luoghi–, è comprensibile. Ma che diventi un unico criterio, è più che discutibile.
Il coronavirus ha messo a nudo anche i limiti della società riguardo alla capacità deliberativa in etica. Alcune azioni “informative-formative” di professionisti della salute per professionisti della salute, gridavano al cielo. La guerra è guerra: si esclude e basta.
Protocolli semplici, ma rispettosi della complessità, sarebbero stati più chiaramente umanizzatori in questa crisi così grande, generata, in particolare nelle prime settimane, senza preparazione né capacità di risposta a tutte le necessità.
Sono stato incluso, perché non sono anziano.
Molto vincolato
Mi sono sentito molto in relazione. Paradossalmente. In mezzo ad una situazione di isolamento e confinamento, con le visite totalmente proibite e i contatti visibili ridotti al minimo, le relazioni sono state abbondanti.
La tecnologia attraverso il telefono e il computer, è diventata il mezzo universale per mostrare i nostri vincoli ed esprimerci l’interesse. Accompagnarci in modo equilibrato è stata una sfida.
Ho avuto vincoli che si sono dimostrati equilibrati, che appoggiavano con la parola opportuna ed in quantità adeguata, sia verbale che scritta.
Ho avuto persone che mi hanno dato fastidio con domande insistenti e messaggi fuori orario. Visitatori inopportuni e morbosi, sia la prima settimana come la seconda, quella di ricovero. Questa è una grande sfida umanizzatrice: pensare alle relazioni sane nella malattia.
Decidere io stesso come, quando e quanto comunicare, è stata una sfida permanente, sempre costosa, perché la combinazione tra pensare alle aspettative degli altri e le mie necessità di riposo, era difficile in ogni momento.
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