San Camillo e i Cappuccini

San Camillo e i Cappuccini
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San Camillo si rivolge all’Ordine dei Cappuccini; ma altri erano i disegni divini visto che per ben due volte, dopo aver preso l’abito, fu dimesso

In copertina “San Camillo vestito l’abito dei Cappuccini si dà ai rigori della penitenza”

Sappiamo dal Cicatelli la stima di Camillo per questo Ordine fin da giovane, quando rimase fondamentale un primo incontro: “… per la Città di Fermo (mentre in quella si riposava alquanto vidde per volontà d’Iddio passar dui Frati Zoccolanti di S. Francesco d’Ascisi ch’andavano per la Città assai mortificati e di voti. Della qual vista ricevè egli alhora tanto buono essempio, che venuto in compuntione della sua dissoluta vita, aiutato dal Signore propose di mutarla in meglio. Anzi tanto di questo desiderio s’accese che fece nel medesimo instante voto di farsi religioso di quel sant’ordine”.

Si recò quindi da un suo zio, Fra Paolo Lauretano, convinto di essere ricevuto subito in convento, “ma suo Zio parte perche lo vidde cosi mal sano, parte anco perche gli parve quella non essere inspiratane d’Iddio, ma più tosto una certa sorte di disperatione, non gli volse dar l’habito. Dal che pigliò occasione Camillo d’alienarsi per alhora da quel santo proposito” (Cicatelli, p. 40).

Nella prima parte della vita Camillo– nonostante diversi tentativi – non riuscì a diventare religioso cappuccino, poiché sempre costretto a recarsi presso l’ospedale S. Giacomo a Roma per le cure della sua piaga; fu proprio in una di queste occasioni che Camillo “solendo dir lui: già che Iddio non m’ha voluto Cappuccino ne in quello stato di penitenza, dove tanto desideravo di stare e morire, è segno dunque che mi vuole qui nel servigio di questi poveri suoi infermi” (Ibidem, p. 50).

Se per la vita è rilevante quanto abbiamo messo in evidenza, tuttavia possiamo individuare un’ulteriore fonte della spiritualità di Camillo. Si tratta di un manoscritto presente nell’archivio generale (AGMI, 2519) il cui titolo può trarre subito in inganno (Indulgentiae concesae nostrae Religioni…, presumibilmente del 1604-1609); in realtà, oltre a questo tema, il ms riporta gli appunti di P. Pelliccioni per la formazione dei novizi. Senza entrare nei particolari per i quali rimandiamo allo studio di Vittorio Ottazzi (San Bonaventura e noi. Rilievi storici, in «Domesticum» 49, 1953), si deve affermare che il Maestro dei novizi si avvale dell’insegnamento di Bonaventura per tradurre in termini aderenti al carisma di Camillo, gli insegnamenti della formazione religiosa dei cappuccini. Il Pelliccioni riporta, nella prima parte del mano­scritto, la traduzione di un opuscolo ascetico di S. Bonaventura, sotto questo titolo: Disciplina a novitii, cavata dal serafico Dottor S. Bona Ventura. Ci sono però varianti di testi che possiamo comprendere dal momento che “il Pellicioni decisamente volle e seppe compiere un adattamento della dottrina di Bonaventura alle particolari esigenze della nostra vocazione e della pratica e metodo d’assistenza infermieristica allora in corso” (V.Ottazzi, p. 36).

Un’ulteriore indicazione sulla stima di Camillo per la spiritualità cappuccina, che riguarda in particolar modo la carità, ce la offre il Padre G. B. Rossi s. j.: l’Autore nel 1644 aveva dato alle stampe un’opera dedicata proprio a S. Bonaventura ed era divisa in 4 parti (Opuscula spiritualia honori S. Bonaventurae velificantis animi, Romae 1644), nell’ultima delle quali descrive la vita di Camillo, come per asserire, senza tema di smentita, un’intima relazione tra gli insegnamenti di S. Bonaventura e la santità di Camillo, spuntata, cresciuta, maturata nell’amore agli infermi. Il Rossi lo afferma esplicitamente nella Prefazione, ove è detto che Camillo imparò l’amore agli infermi durante il tempo della sua permanenza presso i Cappuccini.

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San Camillo costretto dalla piaga a deporre l’abito dei Cappuccini, torna all’Ospedale di S.Giacomo in Roma e vi è fatto Maestro di Casa

Ciò che dà valore teologico-ascetico alla carità verso gli infermi, è un’affermazione di attribuita a Bonaventura nell’opera Stimulus divini amoris in cui si afferma: che “si deve essere mossi da materno affetto, in modo da mostrare compassione come una madre – per il suo unico figlio infermo prediletto – … e, sebbene verso tutti deve avere un comportamento di attenzione e di servizio e debba comportarsi in maniera materna, tuttavia deve considerare tutti gli altri come genitori e padroni” (Cfr. Stimulus divini amoris, apud V. Sabbium, Brixiae, 1599).

Ricordando però che quanto affermato dal Signore non poteva essere dimenticato da Camillo che nutriva particolare ‘devozione’ per una di quelle «buone nove» annunciate per noi nel Santo Vangelo. Scriveva infatti il 19 marzo 1595 ai Professi e Novizi in Napoli: “Non è forse buona nova quella che il Signore ci dice: Infirmus eram, et visitastis me venite benedicti Patris mei, si anco in altro logo, Quod uni ex minimis meis fecistis mihi feristi di più che con quella misura, che misuriamo il prossimo nostro saremo anche noi misurati…”.

È allora un ottimo commento – certamente gradito a Camillo – quanto affermato da san Bonaventura: “Perciò (l’anima) quando scorge un infermo giacente nel suo letto, gli sembra di vedere il suo Cristo, lo Sposo celeste… Perché o anima ti tormenti tutto il giorno alla ricerca del Cristo? Io ti mostrerò ove si trova colui che tu ami. Giace silenzioso nell’infermeria, tormentato e oppresso dalle angustie. Corri, servilo, compatisciLo…. Allora, non chiediamoci più dove Egli si trovi, poiché ne conosciamo esattamente il luogo: è nell’infermeria” (Cfr. Stimulus amoris, Pars II, Caput VII).