La decisione di dare inizio alle cure palliative non è facile. Diversi fattori tra loro connessi intervengono in questo processo: si tratta di fattori emotivi, culturali e scientifici che giocano un peso differente tra i vari attori coinvolti nella decisione. Il professionista della salute, depositario del sapere scientifico, considera un fallimento l’incapacità di debellare la malattia, prolungando per quanto possibile la cura attiva; il malato vi si affida, coltivando la speranza nella (apparente) onnipotenza della medicina; i parenti si sentono inadeguati a decidere, nel timore di provocare una morte anticipata, addirittura di farsi carico della responsabilità dell’eutanasia. Fiducia nella scienza, desiderio di sopravvivere e paura di una decisione affrettata e inappellabile sono spesso variabili che ritardano l’inizio delle cure palliative. Non manca poi l’incapacità a determinare la prognosi di sopravvivenza, un dato particolarmente importante per poter prevedere quanto una persona “ha da vivere” e dunque stabilire alcune priorità.
La prassi medica ha fatto enormi progressi nella comprensione delle cure palliative che cessano di essere la panacea degli “ultimi tempi” e si trasformano in ciò che sono chiamate a essere, un approccio terapeutico specifico che ha inizio quando la terapia della malattia non è più – per quanto prevedibile – in grado di modificare la prognosi e, anzi, potrebbe diventare sproporzionata o dannosa. Esse, le cure palliative, sono chiamate ora “simultaneous care” (assistenza simultanea) quando agiscono congiuntamente a cure mirate a sconfiggere la malattia e ora “terminal care” (assistenza terminale) quando diventano le uniche cure assicurate alla persona malata ed al suo ambiente relazionale. Le cure palliative non sono perciò un’appendice della medicina, ma – al contrario – ne integrano le potenzialità curative. Quanto più precoce è l’intervento palliativo, tanto più facile è lo spostamento delle priorità, dalla malattia al malato, dalla guarigione alla salute/salvezza, dai giorni al tempo. Quando la malattia cessa di avere un ruolo prioritario nella determinazione delle scelte terapeutiche, la vita e la sua faccia notturna – la morte – non fanno più paura!
Alla base del nuovo pensiero sulle cure palliative e sulla loro applicabilità ad una fase precoce della malattia ci sta una rinnovata visione teleologica e antropologica per le quali la vita non è la risultante quantitativa del tempo passato sulla terra ma la profondità di senso raggiunta attraverso le esperienze, le relazioni, gli incontri. In altre parole, cure palliative precoci sembrano realizzare l’aforisma che suggerisce di “aggiungere vita ai giorni e non giorni alla vita”. Accettando la finitezza come una parte imprescindibile dell’essere umano, la qualità – il senso, appunto – della vita è determinato da variabili che sono altro rispetto a quelle meramente quantitative e matematiche. I ricordi; le relazioni costruite; i valori testimoniati nella ordinaria quotidianità sono variabili che prolungano la vita nell’eternità – senza allungarla di un minuto – attraverso la memoria di chi sopravvive.
È un bene, allora, che con maggiore frequenza le cure palliative facciano capolino in fase precoce di malattie dall’esito infausto o a carattere degenerativo. Significa risvegliarsi dall’illusione onnipotente e determinarsi a dedicare maggior tempo alle cose che valgono, alle persone care ed alle relazioni. Invece che affannarsi nella frenetica rincorsa della guarigione, vivere il tempo come una opportunità di nuova vita. Citando un autore di grande attualità: “E vivi ora! Il passato è semplicemente un ricordo, non esiste. Sono le tue memorie che accumuli, riordini, falsifichi. Ora invece non falsifichi niente. Quello che ti aspetti dal futuro è una scatola piena di illusioni, vuota. Chi ti dice che si riempirà? “Ora lavoro, poi vado in pensione e vado a pescare.” Chi lo sa se ci saranno ancora i pesci? La vita avviene in questo momento ed è in questo momento che uno deve saperne godere”[1]. Questo è quanto permettono le cure palliative applicate in una fase precoce della malattia: di vivere il momento presente, con la massima qualità di vita possibile, tenendo testa ai disagi che la malattia porta con sé senza la pretesa di debellare un nemico invincibile. Ancora Terzani ci viene in aiuto con un altro celebre aforisma: “la vera grande libertà comincia quando finiscono le scelte”.
In sostanza, pare necessario cambiare l’atteggiamento di fronte a patologie ad esito infausto o alle gravi deficienze d’organo in fase terminale, spostando l’obiettivo dal punto di vista dell’organo o dell’apparato coinvolto ad una prospettiva più globale che tenga in conto la qualità della vita del paziente. Citando il Documento di Consenso SIAARTI[2], credo di poter sottoscrivere il giudizio e l’auspicio dei commentatori secondo i quali “è auspicabile che l’attuale sistema organizzativo di cura e di assistenza, troppo spesso basato […] su logiche ‘binarie’ che prevedono l’intervento attivo, da un lato, e l’intervento di desistenza con la palliazione dall’altro, sia superato introducendo la pratica delle cure palliative simultanee, che consenta di affrontare al contempo e in modo adeguato il problema delle cure proporzionate, della qualità della vita, della strategia organizzativa e della qualità/dignità del morire”.
[1] T. Terzani, La fine è il mio inizio, 2006
[2] SIAARTI, Grandi Insufficienze d’organo end stage: cure intensive o palliative?, 2013. La parte del testo cui qui si fa riferimento riguarda le considerazioni etiche e giuridiche sullo stesso Documento.
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