Henri Nitiema
Camilliano Burkinabé
Il ricordo di P. Alessandro suscita in me degli interrogativi sul problema della sofferenza, poiché l’ho visto veramente soffrire. Perché questa morte precoce, lui che aveva tanti progetti, ambizioni? Qual è il significato di una esistenza continuamente in preda alla sofferenza?
Tutte queste domande poste non sono affatto nuove. Della sofferenza, dell’esistenza umana nella sua fragilità ne hanno parlato molti esperti. Per cui non pretendo di voler fare una riflessione nuova, personale al riguardo; non sarei all’altezza di dire qualcosa in più a ciò che voi già sapete.
Vorrei semplicemente condividere con voi l’esperienza che ho vissuto accanto a P. Alessandro, o meglio, vorrei prestargli la mia voce perché egli parli di ciò che ha vissuto tra noi.
Attraverso la vita di P. Alessandro ho potuto costatare che la sofferenza, soprattutto quella degli altri e di cui non ci si può rendere conto del tutto, è un mistero dinanzi al quale dobbiamo avere molta delicatezza e rispetto. La sofferenza di P. Alessandro è per me un mistero che si è svelato nel conflitto e nell’accettazione.
Alessandro ha combattuto la sofferenza, bruciava dall’ardore di combattere il male della sofferenza nel cuore e nel corpo degli altri, ma si è battuto con la sofferenza anche nel suo cuore e nel suo proprio corpo. Non si rassegnò affatto alla sua sofferenza. Voleva che si prendesse sul serio il suo male; rimproverava anche gli infermieri e i medici che non eseguivano con prontezza, o che sembravano non prestare attenzione alla sua sofferenza: cercava di informarsi il più possibile sulla sua malattia. Mi ricordo che in Francia si interessava molto dei programmi televisivi che parlavano del progresso della medicina: cercava una via di uscita da questo “ghetto” nel quale egli si sentiva stritolato fino al midollo. Telefonavamo a destra e a sinistra alla ricerca di rimedi. Abbiamo fatto pervenire delle medicine dalla Spagna. Alessandro aveva una certa speranza di guarire come se non tenesse conto dei limiti della medicina. Il suo spirito combattivo era forte a tal punto da convincermi che forse era possibile l’esistenza di una soluzione che lo portasse ad una guarigione corporale.
Questo atteggiamento di P. Alessandro davanti alla sofferenza corrispondeva ad una preghiera che egli aveva già fatto il 7 luglio 1996: “Donami, Signore, il coraggio di lottare, di camminare sempre…”. Tuttavia P. Alessandro era pienamente cosciente della sua situazione: sapeva di essere condannato senza rimedio. Il medico glielo aveva detto chiaramente il 15 novembre 1996 all’ospedale Bry-surMarne (in Francia) dove egli si era recato con la speranza che si potesse fare un trapianto di fegato. Aveva informato anche degli amici al telefono che non c’era più niente da fare per lui. Malgrado ciò, lasciava trasparire la sua speranza.
Tuttavia, in questo conflitto aperto contro il male della sofferenza fisica, P. Alessandro aveva nel profondo del suo cuore una quiete, un’accettazione completa della sua situazione.
Egli accettava la sofferenza del suo corpo come mezzo di salvezza, l’accettava come una scuola di maturazione della sua vocazione camilliana e un completamento della sua consacrazione sacerdotale. Secondo il programma di questa scuola doveva prima di tutto imparare a conoscere e ad amare Dio, ad abbandonarsi totalmente a Lui, unico principio della sua vita. Doveva inoltre imparare a comprendere i malati allo scopo di aiutarli adeguatamente.
Alessandro era profondamente attaccato allo spirito del nostro padre fondatore a tal punto che bruciava dal desiderio di servire i malati con tutta la competenza e le qualità del cuore e dello spirito richieste. È quanto esprimeva già il 4 gennaio 1991: “Vorrei tanto non tenere in considerazione la mia malattia e la morte per potermi donare completamente ai poveri malati”. E il 7 agosto dello stesso anno così scriveva nel suo diario: “Con la professione religiosa sarò consacrato per sempre a te, al mondo dei malati e dei sofferenti; li porterò nel mio cuore, nelle mie mani, sulle mie spalle come fece Gesù. Fa’, o Signore, che io rafforzi bene i miei reni fin da adesso”.
Egli non voleva curare i malati soltanto con competenza, ma anche e soprattutto con tanta umiltà perché sentiva di non esserne degno. Il 21 settembre 1993 scriveva: “Se un giorno diventerò un curatore dei malati metti in me, Signore, questo spirito: di sentirmi sempre indegno di servirli”.
È questo tutto il programma che P. Alessandro ha realizzato in un tempo record nella brevità della sua esistenza terrena.
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