Tanti anni fa c’erano due amici a Roma che avevano una particolare devozione per santa Maria Maddalena. Uno era nato nella vigilia della sua memoria liturgica, il 21 luglio 1515; l’altro , al pari di lei, aveva avuto, mutatis mutandis, una storia di convertito e penitente. Il primo era il fiorentino Filippo Neri, il secondo l’abruzzese Camillo de Lellis. Si conobbero sulle strade della Città eterna nella seconda metà del Cinquecento.
Oggi ci sono due chiese romane molto legate ai due santi e a Maria di Magdala, l’Apostolorum apostola, come viene definita, che si festeggia il 22 luglio. In linea d’aria distano l’una dall’altra circa un chilometro, in una traiettoria che corre dal trafficato Lungotevere del Sangallo fino a un’affollata piazzetta barocca del rione Campo Marzio. Sono intitolate rispettivamente a San Giovanni Battista dei Fiorentini e, per l’appunto, a Santa Maria Maddalena. Della prima Pippo buono fu rettore negli anni della fondazione della Congregazione dell’Oratorio; della seconda Camillo fece la sede centrale del da lui istituito ordine dei Ministri degli infermi. I due edifici conservano memorie di questi due amici così affezionati alla prima testimone oculare della Risurrezione del Signore.
C’è silenzio e caldo di fronte all’entrata della chiesa nazionale dei Fiorentini, che dà le spalle ai classici ingorghi automobilistici del Lungotevere nelle ore di punta. L’aria è ferma, nemmeno un refolo nel cuore del pomeriggio estivo. Poca gente all’interno. Nella quinta cappella della navata destra, ecco la croce davanti alla quale Filippo si inginocchiava, salutando il lignum crucis con il signum crucis della mano, il gesto che, secondo le parole di Cirillo di Gerusalemme riportate su un cartello là vicino, è «una Grazia di Dio», «un aiuto efficace: gratuito, per i poveri e, per chi è debole, non richiede alcuno sforzo». A pochi passi, il frammento osseo del piede sinistro di Maddalena rivestito d’argento e conservato in una raffinatissima teca, una reliquia di cui si hanno notizie certe dal IX secolo e che per molto tempo fu venerata in una cappella sistemata all’ingresso di Ponte Sant’Angelo dai pellegrini in viaggio verso San Pietro.
E dunque, a un chilometro dalla chiesa di Filippo, verso est, c’è Piazza della Maddalena. A inizio serata lo slargo pulsa di amplificati ritmi reggaeton provenienti dai locali che circondano la chiesa di Camillo, con la sua decoratissima facciata rococò, a un angolino inferiore della quale è ospitata un’“installazione” contemp oranea di scatoloni vuoti in attesa d’essere rimossi. I turisti seduti nell’aria ferma e calda consumano pasti fuori orario, la folla sciama in varie direzioni, verso il Pantheon, piazza Navona, il caffè di Sant’Eustachio.
Nel silenzio dell’edificio sacro, a destra del presbiterio, sta il crocifisso che esortò l’apostolo degli ammalati, il cui corpo qui riposa, a non interrompere quanto aveva intrapreso, perché «l’opera è mia non tua». Affreschi e disegni sei-settecenteschi di Maddalena gremiscono altare maggiore, cupola, volta e pareti: è ritratta nelle storie evangeliche che ne raccontano il dolore sotto la croce, la tristezza del cammino con gli unguenti verso il sepolcro, lo stupore davanti a Gesù risorto e la gioia nell’annunciare quell’i n c o n t ro agli apostoli.
«Surrexit Christus, spes mea»: l’antica sequenza Victimae Paschali pone queste parole sulle labbra della donna, raffigurata in questa chiesa anche in una bellissima statua lignea policroma del XV secolo. L’orlo della veste della “m i ro f o r a ” si muove all’altezza del piede che sta per entrare nel sepolcro vuoto. Forse è un effetto del suo andare, forse un vento leggero comincia ad alzarsi dallavterra. Ormai è sera, e anchevfuori, sulla piazza affollata della Maddalena, inizia a circolare un lieve inatteso ponentino.
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