Nel passo citato di Paolo VI è detto «Siate -voi camilliani- l’apologetica vissuta della delicatezza, del disinteresse, dell’eroismo, se è necessario, di chi ha fatto dell’esempio di Gesù Signore l’univa ragione di tuta la propria vita, la misura di una necessità senza misura, la molla segreta di uno slancio destinato a spezzarsi solo con la morte».
Non mi è difficile vedere in p. Rebuschini «l’apologeta della delicatezza», riflesso della bontà che gli derivava dal cuore, libero da qualsiasi forma di distacco dalle persone, di antipatia, di ostilità. Non era una dote innata. Il possederla al punto da sembrare connaturata alla sua persona, gli è costato un lungo esercizio ascetico. Nel quadernetto di cui sopra, a 27 anni, cinque mesi prima di entrare tra i Camilliani, nota in se stesso scatti d’impazienza, mancanze al proposito di essere sempre amorevole e di non infastidire gli altri col volto triste, moti di irritazione anche solo interna, tendenza a giudicare, avversione alla fatica dello spirito, atti interni di disamore. Durante il noviziato si propone di acquisire l’attitudine dell’amabilità, che egli chiama anche affabilità ornamento dello spirito di servizio, cioè della carità in atto.
L’apologetica della delicatezza proposta da Paolo VI evoca quanto chiederà ai Camilliani del Lombardo-Veneto Giovanni XXIII, di essere «lieti, affabili e umanissimi»
Che così sua stato p. Rebuschini è opinione comune di chi l’ha conosciuto. P. Moar –è noto- nel deporre di p. Enrico, non usa il termine eroicità, non gli piace, probabilmente perché gli evoca gli antichi eroi mitologici considerati come semidei, o tipo di santità irraggiungibile, amplificati dalla retorica dei predicatori o dalla fanatizzazione della gente; egli preferisce il termini di esemplarità. Ma all’interno di questa esemplarità egli «traccia un quadro di virtù umane e religiose più che onorevole. Il governo di p. Enrico era permeato di bontà e longanimità… Il suo ascendente era quello del tacito esempio. Era stimato e benvoluto a Cremona e fuori; trattava le persone con molta finezza; era fedele alla parola data, sapeva essere remissivo e indulgente, l’aspetto esterno rifletteva la compostezza e l’ordine interiore … equilibrato sempre uguale a se stesso…»
Non poteva descrivere meglio questo singolare «apologeta della delicatezza», che ricorda il manzoniano «sincero apologista di una leggi il di cui fine è l’amore» (riferito al Card. Borromeo).
Suor Faustilla Pernechele, superiora generale delle Suore della misericordia, conserva di p. Enrico un ricordo incancellabile. Era stato sua guida spirituale a Cremona dov’era giunta giovane suora alla sua prima esperienza di professa. L’aveva orientata nella vita e sostenuta nell’amorosa dedizione ai malati. Alla distanza di cinquant’anni lo ricorda come modello di delicatezza, di rispetto e devozione ai malati. «Trattava tutti –afferma la cugina Virginia Casati in Rebuschini. Con carità e dolcezza infinita». E Giovanni Vergottini: «Trattava tutti con grande dolcezza». Un radiologo della casa, il Dr. Vergani: Nei rapporti avuti con lui a motivo della sua attività ho sempre ammirato la sua perfetta correttezza. In tutti gli incontri lo trovavo di umore uguale, sereno, gentile e comprensivo. E questo comportamento era oggetto della mia ammirazione, in quanto sapevo che la casa aveva le sue serie difficoltà e impegnative erano le responsabilità del padre».
Vediamo ora di illustrare questa «apologia della delicatezza» con la scuola spirituale a cui Rebuschini si ispirava e col modello religioso ch’egli attingeva alla ricca fonte del fondatore. Era una delle linnee formative che la casa del noviziato gli trasmetteva, conforme all’invito che Paolo rivolgeva ai fedeli di Filippi: «Che la vostra affabilità sia nota a tutti gli uomini…». Così almeno traduce il termini epikia la Bibbia della CEI. Noi potremmo tradurre con socievolezza, accessibilità, cortesia, nobiltà di tratto. Lo Spick traduce con: «simpatico equilibrio». Epika significa equità, essere equi con tutti. Nel greco classico esprime spesso l’onorabilità, la dirittura della persona, qualifica gli uomini dabbene, segnala la rettitudine del loro discernimento. si manifesta nel senso della misura, nel garbo, la gentilezza, la cortesia, la disposizione armoniosa ai rapporti con gli altri, a sentimenti concilianti e moderati, all’indulgenza di fronte alle debolezze degli altri, alle disposizioni a ricordare il bene che ci è stato fatto piuttosto che il male, ai benefici ricevuto piuttosto che ai servizi che abbiamo resi, all’insistere nel dialogo piuttosto che ad imporsi , per trovare un punto comune quando le opinioni sono diverse.
L’invito all’affabilità è ricorrente in san Paolo: «Sono io stesso, Paolo, che vi esorto per la dolcezza e la mansuetudine di Cristo» (2Cor 10,1). «Ricordo (ai fedeli) … di essere mansueti, mostrando ogni dolcezza verso gli uomini» (Ti 3,2). «Il vescovo … non dev’essere arrogante né iracondo, ma ospitale, amante del bene, assennato, giusto, pio, padrone di sé…» (ib.1,7-8). «La sapienza che viene dall’’alto è anzitutto pura; poi pacifica, senza parzialità, senza ipocrisia» (Gc 3,17).
La spiritualità cristiana richiede un carattere equilibrato, una moderazione che la renda comprensibile, una buona grazia che s’adatti a tutti i caratteri, una condotta che s’ispiri all’ordine, alla convenienza, alle regole della buona educazione. «Che tutto si faccia decorosamente e con ordine» (1Co 14,40). «Sono tra voi con lo spirito e gioisco al vedere la vostra condotta ordinata e la saldezza della vostra fece» (Col 2,5)
La delicatezza del tratto è l’espressione del rispetto verso le persone. S. Camillo la presenta sotto forma di affetto materno (tenerezza), di amorevolezza (benevolenza, premura), piacevolezza (giovialità, buon garbo), mansuetudine (bontà, accoglienza, mitezza), rispetto (delicatezza, riverenza), diligenza (assiduità, sollecitudine) e carità (nominata 17 volte in 25 Ordine et Modi che si hanno da tenere in servire gli poveri infermi). L’affabilità non era certamente di casa a Santo Spirito, stando alle testimonianza dell’epoca. S. Camillo la esige, per quella considerazione positiva e calorosa dovuta la malato come persona che soffre. I suoi religiosi dovevano farsi all’idea che nessuno è privo di valore nascosto. I malati stanno davanti ai loro occhi come in possesso di qualcosa di prezioso che può anche sfuggire ad una osservazione superficiale. Dio non guarda ai lati cattivi delle persone, diceva una massima cassidica, e noi dobbiamo fare altrettanto. Leggendo le cronache scritte da p. Enrico, inutilmente cercheremo giudizi o valutazioni negative sulle persone e i loro comportamenti; mette piuttosto in luce i loro lati positivi, il concorso delle loro doti per il buon andamento della casa, lo spirito religioso che li animava. E per tutti ha parole di lode e di gratitudine, parole trasparenti e sincere.
Isaia prevede nel Messia colui che «non griderà né alzerà il tono, non farà udire in piazza la sua voce, non spezzerà una canna incrinata, non spegnerà uno stoppino dalla fiamma smorta» ( Is 42,2-3). Cosi p. Rebuschini: agisce con mansuetudine, magnanimità, con la dolcezza forte di chi vuol essere per tutti persona di pace. È lo stile del misterioso servo di Yahwé. L’atteggiamento umile, dimesso di chi non grida, non si esibisce, si accosta al debole con rispetto e delicatezza. «Sono i gesti poveri, feriali, la parole sommesse, bisbigliate, le attenzioni sottile che danno la vita. Dove una sofferenza l’incrina, un’angoscia l’estingue, solo un segnale di comprensione riapre alla speranza. Recita il Tamuld: «Chi eredita il mondo che viene? Il mite e l’umile, colui che si piega quando entra e quando esce». Il mondo che viene è anticipato al mite, che possiede la terra, torva via d’accesso al cuore degli altri, e la soluzione pacifica di problemi anche gravi.
Questa singolare «delicatezza» a che cosa era dovuta? Al temperamento naturale, cioè al codice genetico che ciascuno si porta con sé? All’esercizio ascetico degli anni giovanili, di cui abbiamo parlato? Al suo costante confronto con la parola di Dio, dalla quale si lasciata pervadere e formare? Alla scuola del Paradiso, che in quegli anni aveva per maestri p. Sommavilla e p. Rocco? Alla scuola di S. Ignazio, che ha creato delle personalità religiose distinte anche per la mitezza e la grande bontà d’animo? Probabilmente per tutte queste cause messe assieme, cui fa da elemento propulsivo la costante tensione interiore verso il meglio, il più perfetto. Ma c’è un’altra ragione che ha singolarmente contribuito a fare di lui l’apologeta della delicatezza: la sofferenza provata nella sua persona quelle quattro volte che ha fatto l’esperienza in proprio della depressione. Chi l’ha provata in proprio o chi ha dovuto gestirla nel suo gruppo comunitario sa quanto sia dolorosa e disperante. «Mi faceva compassione» dichiara p. Filippi nei processi.
Il concetto è il seguente: avendo sperimentato cosa sia il soffrire, è diventato delicato e comprensivo davanti alle sofferenze degli altri. C’è una didattica nella sofferenza. La sofferenza è una scuola. E p. Rebuschini ne ha ricavato frutto, affinando il suo spirito e limando il suo carattere –portato allo studio, alla preghiera, alla solitudine- alle attitudini della delicatezza, della comprensione, dell’amore. Quando ci si accosta al dolore, ci si accosta a un mistero. Interrogando la sua esperienza
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