La guarigione, anche quando accade, non è mai fine a se stessa, è apertura, indicazione d’una nuova strada che ora si apre. Sicché il ringraziamento, la lode o – addirittura – il mettersi alla sequela di Cristo, sono segni indicativi di un «oltre» verso il quale occorre proseguire. Il malato deve ora capire che è necessario che superi l’attenzione eccessiva a se stesso ai beni transitori, per trascendersi, deve ossia «uscire da sé» e trovare il proprio centro nel Signore, perché «nella sua volontà è la nostra pace» e solo «perdendo la propria vita per suo amore la ritroverà». La preghiera di invocazione e di supplica, perciò, tende a svilupparsi nella preghiera più alta dell’ammirazione, della lode, dell’adorazione di Dio e della sequela del Cristo: Dio – e la sua volontà santa – è ben più importante di se stessi. È questo convincimento che va vissuto e assimilato in questo genere di preghiera.
Alcune caratteristiche della preghiera di supplica
- Prima di tutto colpisce la veemenza, l’intensità, la caparbietà, si direbbe, che caratterizza questo genere di preghiera. In quelle circostanze l’uomo è totalmente «rivolto» a Dio, a Lui proteso, avverte che dipende radicalmente da Lui. Per questo lo invoca davvero «con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutte le forze». Diviene egli stesso «in-vocazione», totalmente proteso in Dio: «come gli occhi dei servi…, come gli occhi dell’ancella alle mani della padrona…» (Si 123,2).
Per questo «grida» a Dio non saltuariamente e in maniera più o meno attenta, più o meno distratta, ma… «giorno e notte» (Le 18,7): non può far a meno di questo rapporto, lo «cerca fin dall’aurora» «come una terra riarsa» (Sl 63), come «una cerva assetata…» (Sl 42). «Sono soprattutto le prove – scrive Jean Lafrance, noto maestro di preghiera recentemente scomparso che ha ritenuto d’aver cominciato a pregare davvero solo quando, colpito da un tumore, ha scoperto la «preghiera di supplica» – che insegnano a pregare. Non siamo mai abbastanza immersi nella disperazione per gridare a Dio: un grido che viene dal profondo è sempre esaudito…. Perché solo chi è sempre nella prova e nelle tribolazioni è perseverante nella preghiera, prega sempre senza stancarsi mai… Ed è lo Spirito che è alle spalle di questi eventi: è lui che, a nostra insaputa, ci mette in condizioni in cui non si può fare altro che pregare».
Fa ricordare l’episodio che si narra nei «Detti dei Padri del deserto», di quel giovane che chiese al vecchio maestro di insegnargli a pregare. Il maestro lo guardò con una certa sorpresa, tra l’incredulità e l’ammirazione. Poi, piuttosto che perdersi in parole, lo portò a una pozza d’acqua, gli chiese di chinarsi lì davanti, con mano risoluta e con una forza che non si sarebbe creduta in lui, lo ficcò con la testa sott’ acqua e ve lo tenne a lungo, mentre quegli si dimenava. Finalmente lo lasciò venir fuori, e al giovane che stupito lo guardava come dicesse: «Ma come, io ti chiedo d’insegnarmi a pregare e tu m’anneghi?» – rispose: «Che cosa bramavi più ardentemente mentre ti tenevo fermo sott’ acqua?» E quello: «Respirare!». «Ecco – riprese il vecchio – finché non ti rivolgerai a Dio con tutto te stesso come ora cercavi l’aria, divincolandoti in ogni modo dalla mia stretta perché ti sentivi morire, non credere di star davvero a cercare Dio».
- È vero che nella malattia l’uomo è chiamato a vivere in una maniera singolare la dimensione «passiva» della sua esistenza: non gode più di quell’autonomia che tanto faticosamente s’era guadagnato avviandosi all’età adulta. Ma a ben pensarci, non è – la vita cristiana – prima di tutto un dono, il dono che Dio fa di se stesso – della propria vita – all’uomo? Quindi, prima di tutto è accoglienza, recettività. Solo successivamente è anche autodonazione, in un movimento di restituzione del dono ricevuto. «Ogni attività che merita di essere chiamata cristiana – scriveva Padre H. De Lubac – si dispiega necessariamente su un fondo di passività», e la malattia può aiutare a comprendere e accettare questa situazione, altrimenti così difficile da condividere. Oggi poi pare che siamo tutti presi dal movimento, dalle cose da fare, dall’attività, dall’iniziativa, dall’assunzione di responsabilità che fermarsi un poco e accogliere, star con le mani e l’animo teso – come è la preghiera – sembra quasi una morte!
- Perché la preghiera deve poi condurre al decentramento, all’uscita da se stessi`per andare verso Dio e verso il prossimo. E questo richiede la trasformazione interiore, il cambiamento, la conversione. Ma non c’è trasformazione né cambiamento né conversione senza purificazione, senza, ossia, il distacco da se stessi, uno smettere di essere preoccupati di sé. La stessa condizione di malattia può costituire un richiamo a rivedere la propria vita, a ridimensionare tante cose. Ora ci si accorge di quante fatuità rincorrevamo e di come trascuravamo l’essenziale. Dal punto di vista del Vangelo questo significa che «il tempo ci è dato per impiegarlo nell’unico lavoro necessario della vita, quel lavoro cui alludeva Gesù rispondendo a Marta che lo sollecitava a muovere Maria dal suo immobilismo: «Una cosa sola è necessaria… L’unico lavoro necessario sta nell’imparare a far di Dio il centro dei nostri pensieri e della nostra vita… Allora si comincia a capire che Dio, per formare in noi la vita, ci pone di fronte a cose che passano e a cose che non passano… Si comincia a capire che nelle nostre scelte non dobbiamo lasciarci guidare da ciò che appare, né dai nostri sentimenti ed emozioni; ma dobbiamo imparare a superare noi stessi, ad andare oltre le nostre impressioni. È proprio questa necessità di andare oltre noi stessi che ci apre la strada alla nostra vita interiore» (L. Bracco).
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