Nella Foto di copertina: p. Francesco Spagnolo celebra l’Eucarestia a Nairobi. p. Franco Avi e p. Giannino Martignoni concelebrano
Un missionario ricorda la vita di un ‘collega’, p. Francesco Spagnolo,
missionario in Kenya, morto il giorno 8 gennaio 2018,
dopo lunghi anni trascorsi in terra africana
di p. Paolo Guarise
Se dovessi riassumere con due parole le grandi passioni che hanno caratterizzato la lunga vita del Padre Francesco Spagnolo, sceglierei queste due parole: passione per le lettere classiche e passione per la missione africana. Evidentemente nella sua vita ci sono state tante altre passioni, come il calcio – era un buon mediano – e le escursioni in montagna. Ma queste le possiamo classificare come ‘minori’, rispetto alle altre due che hanno caratterizzato in modo determinante ed edificante la sua esistenza.
La passione delle lettere classiche
Dopo avere frequentato il liceo classico, gli studi di filosofia e di teologia e dopo essere diventato sacerdote, P. Francesco Spagnolo – missionario camilliano deceduto a …il … dopo essere vissuto 32 anni come missionario in Kenya – si è iscritto alla Facoltà di Lettere Antiche all’Università Sacro Cuore di Milano ed ha conseguito la laurea nel 1961. Per tredici anni ha insegnato latino e greco agli studenti camilliani nella casa di formazione di Verona, con grande competenza e passione. A vederlo e ascoltarlo si avrebbe detto che era stato fatto per fare il professore: era preciso, metodico, competente, autorevole. Nei confronti degli studenti era piuttosto severo ed esigente, alla fine però, era profondamente umano e generoso. Questa era la sua prima passione: l’insegnamento delle materie classiche. Nel 1968 P. Francesco è stato inviato a Padova quale cappellano ospedaliero. Vi è rimasto tre anni, con buon profitto sia per i malati che per l’Ordine camilliano. La sua intelligenza, serietà di vita, dirittura morale lo hanno portato ad essere eletto consigliere provinciale e qualche anno dopo superiore della sede provincializia – la Casa Santa Maria del Paradiso – con la responsabilità di primo consigliere provinciale, che equivale alla qualifica di Vice-Provinciale. In tutti questi anni nessuno aveva mai scoperto che in P. Francesco c’era una passione nascosta che di quando in quando si affacciava con prepotenza, quella di diventare missionario. Nonostante fosse passata l’epoca epica dei Camilliani che partivano per le missioni d’Oriente, quali P. Antonelli, P. Crotti, P. Avi, tuttavia nel suo cuore albergava il desiderio di dedicarsi ai malati e bisognosi in terra di missione. Quando e come realizzare questo desiderio, non gli era mai stato chiaro.
La passione missionaria
Per P. Francesco l’occasione propizia giunge verso la fine degli anni Settanta quando il Superiore Provinciale, P. Forsenio Vezzani, lancia un appello per trovare tre o quattro persone disponibili ad andare in Africa, precisamente in Kenya, per prendere in mano un ospedale missionario – quello di Tabaka – da poco fondato da un medico laico, olandese. L’ospedale aveva grossi problemi di gestione e il vescovo Mons. Mugendi era alla ricerca di una congregazione che se ne prendesse carico. A P. Francesco non pareva vero di avere udito quella richiesta e presenta immediatamente la sua candidatura che P. Vezzani accoglie con gioia mista a disappunto, sapendo di perdere una buona pedina nella scacchiera della Provincia. P. Francesco lascia ben presto le sue responsabilità, si reca a Londra per qualche mese di lingua inglese e il 3 settembre 1976 arriva a Tabaka, in Kenya.
Dopo qualche mese dal suo arrivo, l’ospedale di Tabaka viene re-inaugurato sotto la nuova gestione camilliana e P. Francesco viene fatto superiore della comunità che è costituita da un altro religioso camilliano – P. Francesco Avi, prestato ad tempus dalla missione camilliana di Taiwan – e da due religiosi fratelli: Fr. Albano Balzarin e Fr. Fabio Zeni. A fianco dei Camilliani, in stretta collaborazione e unità d’intenti, lavorano anche tre suore camilliane Ministre degli Infermi. Dopo qualche anno l’ospedale raddoppia i posti letto. I servizi sanitari aumentano in quantità e qualità. Aumenta il personale ospedaliero e con la stessa rapidità aumentano anche… i problemi! La sfida principale, infatti, non è aumentare il numero di assistiti, o acquistare attrezzature sanitarie più moderne, bensì far fronte ad alcuni bisogni “primordiali” per un ospedale, come l’approvvigionamento di acqua, la corrente elettrica, la sistemazione della strada di accesso (che durante le piogge diventa un torrente), la possibilità di comunicazione postale e telefonica. Solo una mente razionale e logica come quella di P. Francesco, unita a forza di volontà, disciplina e perseveranza poteva superare, passo dopo passo, tali ostacoli che sembravano insormontabili. È il caso di dire che “la logica” di P. Francesco – che di primo acchito poteva sembrare una qualità adatta solo per i banchi di scuola, o al massimo per le aule universitarie – si è fatta pratica, terra terra, fino a risolvere in maniera adeguata problemi che per gli occidentali sono ritenuti scontati, mentre in Africa rappresentano le condizioni di sopravvivenza. C’è da notare che prima che arrivassero i Camilliani l’ospedale era stato aperto e chiuso per ben due volte!
Le difficoltà che P. Francesco ha incontrato per superare tali problemi sono innumerevoli. Ne ricordiamo qualcuna. Padre Francesco era professore di lingue, però di lingue antiche quali il greco e il latino. Ha avuto solo cinque mesi di tempo per andare a Londra e apprendere l’inglese, lingua ufficiale del Kenya. Tempo assolutamente insufficiente per imparare bene l’idioma e farne poi uso nello scrivere lettere, preparare omelie, incontrare medici e rappresentanti governativi. Ricordo che mi confidava: “Solo a pensare che domani ho un incontro con il personale medico, comincio a sudare freddo. Come faccio a sbrigarmela con la conoscenza dell’inglese che possiedo?”. Col passare del tempo superò bene questa difficoltà. Anzi imparò anche il swahili, seconda lingua nazionale del Kenya. E andò ad impararlo a Tabora, in Tanzania, presso una scuola di lingue diretta dai Padri Bianchi. Stavolta però non si è preso solo cinque mesi per imparare questa nuova lingua, ma tutto il tempo necessario.
Un problema molto, molto pratico era quello dello smaltimento delle “acque nere” dell’ospedale. Nonostante fosse in Africa, tuttavia P. Francesco non voleva ignorare le regole di igiene e di rispetto dell’ambiente e quindi aveva provveduto a scavare diverse vasche di decantazione per purificare – almeno in parte – il liquame. In questo era stato aiutato da Isanda Metobo, figura carismatica (nel suo campo!) da tutti soprannominato “il magistrato delle acque”.
Come non ricordare la fatica di comunicare con l’Italia! L’ospedale disponeva di un telefono antidiluviano a manovella, però erano più le volte che non funzionava che quelle in cui ci si poteva collegare con l’estero. Per cui spesso bisognava lasciare l’ospedale, prendere la macchina e raggiungere Rongo, ad una decina di chilometri di distanza, dove – all’ufficio postale – c’era un telefono ad uso pubblico che, con i buoni uffici di una centralinista, ci metteva in contatto con l’Italia.
La passione per l’uomo
Gli esempi sopra citati potrebbero far pensare che le energie di P. Francesco si esaurissero nel far fronte ai problemi pratici e logistici della missione di Tabaka. Invece non è così. Padre Francesco aveva un grande cuore e mostrava una profonda sensibilità per le esigenze personali dei malati e dello staff ospedaliero. I suoi sforzi quotidiani, anche se mirati alla soluzione di problemi materiali, avevano come scopo finale il benessere della persona in quanto tale. Nel periodo dell’infuriare della malaria – che giunge puntualmente dopo la stagione delle piogge – c’era un aumento esponenziale di pazienti, specialmente bambini piccoli, che dovevano essere ricoverati per ricevere numerose fleboclisi, per idratarli e far loro superare lo stato d’anemia in cui si trovavano. Ebbene, quando il reparto pediatrico “scoppiava”, cioè raggiungeva la capienza completa (il che significa due mamme per letto, una dalla parte della testa e una dalla parte dei piedi, con i rispettivi bimbi a carico), i nuovi pazienti venivano sistemati nel corridoio, e quando il corridoio era pieno, venivano accomodati nella cappella dell’ospedale. Al direttore dell’ospedale – P. Francesco – doleva il cuore dover dire alle mamme dei piccoli pazienti: “Non c’è posto!”, per cui faceva di tutto per evitare quel momento.
C’è un aspetto di P. Francesco che mette in evidenza la sensibilità che nutriva nei confronti delle necessità delle famiglie del personale ospedaliero. Quando a fine mese le infermiere si recavano nel suo ufficio per riscuotere lo stipendio, molte di esse chiedevano di essere aiutate a pagare le quote scolastiche dei figli in età scolare, che potevano essere tre o quattro. P. Francesco non se la sentiva di mandarle a casa senza un aiuto, per cui dava loro un anticipo sul successivo stipendio. Talvolta, col passare dei mesi, quel debito diventava più grande dello stipendio che l’infermiera riscuoteva, creando così disguidi sui registri di conto.
Ma la prova più grande che dimostra come lo spirito missionario di P. Francesco fosse orientato al benessere spirituale delle persone, più che a quello materiale e fisico, è il fatto che dei 32 anni trascorsi in Africa, P. Francesco ne ha passato ben 13 a Nairobi, a fare il cappellano d’ospedale. Egli aveva già svolto il ministero di cappellano all’ospedale di Padova, quando era ancora fresco di ordinazione sacerdotale. Dopo 16 anni di lavoro a Tabaka come superiore e direttore dell’ospedale, ha fatto uno stacco di 9 anni lasciando Tabaka per andare a fare il cappellano al Kenyatta Hospital di Nairobi, al posto di P. Gian Marco Dal Bon che ritornava definitivamente in Italia. Pensiamo cosa poteva significare per P. Francesco, “uomo di lettere” (a differenza di S. Camillo!) e persona di poche parole, dover conversare con i pazienti in lingua swahili, su argomenti che erano ben lungi dalla logica che aveva insegnato per tanti anni! A tale proposito si deve giustamente affermare dire che in P. Francesco la logica si è messa a servizio della carità.
Dopo 9 anni di servizio come cappellano al Kenyatta Hospital di Nairobi, a P. Francesco è stato chiesto di tornare all’ospedale di Tabaka in qualità di superiore. È ritornato con solerzia a quell’ospedale che conosceva bene per averlo aiutato a crescere quasi dal nulla e ha svolto il suo mandato di tre anni, finito il quale è ritornato dove? A Nairobi, per riprendere a fare il cappellano. Stavolta però è andato a farlo in un ospedale ancora più difficile, il Mathare Mental Hospital, in netto contrasto con la sua specialità, la “logica”. Immaginiamo quali grandi “argomenti” abbia potuto trattare con questa categoria di pazienti!
Armoniosa fusione
Possiamo dire, senza ombra di dubbio, che le due grandi passioni di P. Francesco – l’insegnante di lingue classiche e la passione per le missioni – si sono fuse armoniosamente nell’unica passione per l’uomo, per l’uomo in necessità, fosse essa di tipo materiale o spirituale. Da buon camilliano, P. Francesco ha lavorato con uguale tenacia e competenza sia per la salute fisica che spirituale dei malati, per 32 anni. Se fosse dipeso da lui, egli avrebbe continuato ancora, senonché i segnali di quel male degenerativo che segnerà la sua fine avevano cominciato a farsi notare. Me ne accorsi quel giorno che a tavola mi disse: “Sai, per andare al seminario (Seminario S. Camillo di Langata, che conosceva bene) ho dovuto fermarmi e chiedere al vigile dove si trovava”. La sua memoria, che era stata sempre molto buona, se ne stava andando a rotta di collo. Sono certo che a conclusione della sua lunga e fruttuosa vita gli si può associare, a buon conto, la nota frase di S. Paolo: “Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede” (2Tim 4,7).
LEGGI QUI IL NECROLOGIO IN ITALIANO E IN INGLESE
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