Come un cammino di fede e una spiritualità coltivata hanno una ricaduta sul mio essere operatore sanitario
Come l’esperienza della cura del malato alimenta e arricchisce la mia spiritualità
Fin da subito quando mi è stato rivolto l’invito alla partecipazione all’incontro di pastorale della salute, ho pensato come non sia semplice parlare della propria esperienza di fede, di spiritualità che informa la vita, che si coltiva durante la vita; fa parte in certo senso del vissuto intimo, personale, di cammino e di crescita umana e cristiana; a questo posso aggiungere, anche se è scontato, le difficoltà del tempo presente. Se lo scorso anno, pensando all’incontro di maggio, eravamo quasi fiduciosi che avremmo avuto alle spalle (o quasi) la fatica, l’isolamento, la chiusura dovuta alla pandemia, ci siamo dovuti ricredere ben presto, e c siamo ritrovati, o siamo rimasti, in una strada in salita, che continua ancora oggi, pur con qualche spiraglio di luce.
Riflettendo sul tema che mi è affidato, mi sembra quasi di dover far riferimento ad un tempo tra un “prima” e a un “dopo”. Che non è legato solamente all’oggi della pandemia, ma che nella vita ho sperimentato con altre esperienze faticose e dolorose, che mi hanno fatto confrontare con la precarietà della vita, con la mia fragilità, con l’immagine della morte, tanta incertezza e paura, e che mi hanno posto interrogativi sul mio credere.
Sento come sia importante, tra tante parole dette e ascoltate, talvolta superficiali, come sia necessario rientrare in se stessi, fermarsi, pensare, guardando alla vita vissuta, riflettendo sulle esperienze vissute, e se e come queste mi hanno fatto compiere un cammino, e crescere come persona.
Ancora oggi sento il desiderio, talvolta il bisogno, di chiedermi il perché di molti avvenimenti accaduti, come li ho vissuti, se mi hanno lasciato qualcosa, che cosa ho imparato che mi ha aiutato, o mi può aiutare a vivere oggi, facendo tesoro del vissuto, del passaggio attraverso strade strette, del dolore e dei lutti. Ci sono fatti, episodi, incontri che hanno lasciato il segno, e ritornano facilmente alla memoria, che non si dimenticano. È il desiderio di “fare memoria”, di non dimenticare quello che ho vissuto. E’ anche fare memoria di un’esperienza, di un incontro significativo rimasto in me, che ha contribuito a cambiarmi, e in qualche modo a fare tesoro di quell’incontro. Incontri che in qualche modo mi hanno segnato.
Nel titolo “cammino di fede e spiritualità coltivata”: camminare e coltivare indicano proprio la vita delle persone; molte volte la vita viene descritta come un “pellegrinaggio”, un “camminare verso una meta” e di fatto lo è; e il “coltivare” la vita indica il lavoro paziente, continuo, fiducioso nonostante le avversità, come il contadino per il suo campo; sento che anch’io ho vissuto, e cercato di coltivare la vita dello spirito in me, per rafforzare e illuminare il cammino, soprattutto nei momenti difficili, quando la strada diventa impervia. La vita è un cammino senza fermate, si va avanti, maturando, cogliendo frutti dalla vita stessa, dalle esperienze vissute.
Coltivare assume il significato di una continua ricerca, paziente, fedele, guardando e facendo tesoro degli avvenimenti, vigilando sul cammino stesso che chiama anche a discernere; discernere fra diverse scelte che la vita ci mette davanti. Scelte anche piccole, quotidiane, fatiche e gioie di ogni giorno: guardandole con occhio limpido, con uno sguardo attento, sorretto dalla fede, accogliente delle persone che incontro, nella professione e non solo, oltre il lavoro, nella vita intera, nella famiglia, con le amicizie.
Ho vissuto diversi anni una professione sanitaria; sono stata infermiera e caposala in ospedale, terminando il mio periodo lavorativo con alcuni anni di servizio nel pronto soccorso dell’ospedale più grande della mia città. La professione è stata una scelta, consapevole e desiderata, posso dire amata. E’ stata una parte molto importante della mia vita, che mi ha lasciato ricordi molto belli, insieme ai tanti problemi vissuti e condivisi, la sofferenza di molti, tante persone incontrate e di cui mi sono presa cura, insieme a giorni faticosi, a relazioni faticose all’inizio, perché non sono facili il lavoro e le relazioni fra colleghi, ma pian piano con molti si sono costruite delle amicizie, dei rapporti molto belli, di collaborazione e condivisione.
Il servizio ai malati, i dialoghi, le amicizie scaturite, gli incontri con i familiari dei malati, i rapporti con i colleghi sono entrati dentro di me, e molti vi sono rimasti ancora oggi.
Quante volte, uscendo dall’ospedale ho continuato a pensare a ciò che quel giorno avevo vissuto, alle persone incontrate, all’assistenza ai malati, alla sofferenza di molti; particolarmente questo mi accadeva negli anni di servizio in pronto soccorso.
Ho avuto consapevolezza, fin da giovanissima, che questa dell’infermiera era la professione che volevo fare, che era “per me”, pensando anche ad un sogno (che poi in realtà non è accaduto, per diverse circostanze della vita, anche familiari). Ho pensato e poi vissuto la professione come una vocazione, e ho voluto vivere in questo senso il mio lavoro. La risposta, il mio modo di essere cristiana.
Una vocazione, che ha riempito e informato tutta la vita, che è stato un cammino, un percorso di studio, di approfondimento continuato, coltivando la competenza, sia per l’aspetto tecnico, ma anche nelle scienze umane, nell’approfondimento della relazione d’aiuto, dell’accompagnamento, e nella cura del malato, anche nell’aspetto spirituale.
Mi sono impegnata e ho sempre cercato la competenza, come compendio di una serie di fattori, che coniuga appunto la preparazione teorica, sapendo che non basta, perchè è necessario coltivare l’umanità, il saper “vedere” la persona sofferente, i suoi bisogni, prima e al di là delle parole che forse non riesce ad esprimere…il diritto alla cura, al rispetto ; quante volte uno sguardo, una carezza, uno stare accanto senza parlare sono stati momenti vissuti intensamente, per me e per la persona accanto a me.
Un passo dell’esortazione apostolica Evangelii Nuntiandi così recita rivolta ai laici:
70. I laici, che la loro vocazione specifica pone in mezzo al mondo e alla guida dei più svariati compiti temporali, devono esercitare con ciò stesso una forma singolare di evangelizzazione.
Il loro compito primario e immediato non è l’istituzione e lo sviluppo della comunità ecclesiale – che è il ruolo specifico dei Pastori – ma è la messa in atto di tutte le possibilità cristiane ed evangeliche nascoste, ma già presenti e operanti nelle realtà del mondo. Il campo proprio della loro attività evangelizzatrice è il mondo vasto e complicato della politica, della realtà sociale, dell’economia; così pure della cultura, delle scienze e delle arti, della vita internazionale, degli strumenti della comunicazione sociale; ed anche di altre realtà particolarmente aperte all’evangelizzazione, quali l’amore, la famiglia, l’educazione dei bambini e degli adolescenti, il lavoro professionale, la sofferenza. Più ci saranno laici penetrati di spirito evangelico, responsabili di queste realtà ed esplicitamente impegnati in esse, competenti nel promuoverle e consapevoli di dover sviluppare tutta la loro capacità cristiana spesso tenuta nascosta e soffocata, tanto più queste realtà, senza nulla perdere né sacrificare del loro coefficiente umano, ma manifestando una dimensione trascendente spesso sconosciuta, si troveranno al servizio dell’edificazione del Regno di Dio, e quindi della salvezza in Gesù Cristo.
E’ un documento di molti anni fa, che ho trovato chiaro nell’affermazione del compito, della vocazione laicale nel mondo. Ho sempre creduto in ciò che ritengo essere il compito dei laici nella società e nella Chiesa; qual è il loro compito primario, per costruire una società giusta, umana, rispettosa dei diritti di tutti.
Ho cercato di vivere la fede prima di tutto vivendo bene il mio lavoro, secondo scienza e coscienza; particolarmente in questa professione, che mi offre e mi chiede molto; una professione che almeno fino a non molti anni fa era svolta in percentuale maggiore da donne, anzi esclusivamente da donne. Negli anni, ovviamente, molto cammino è stato fatto e non è più così.
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