Il Dono come speranza!

Forse: la SPERANZA come DONO?

 

IL DONO STA AL MERCATO

COME LA FESTA STA ALLA VITA QUOTIDIANA,

IL LUSSO ALL’UTILE, IL SACRO AL PROFANO,

LA PROSTITUTA ALLA SPOSA! (Guy Nicolas)

 

Il dono, per essere un dono, dev’essere come il tabacco: deve andare in fumo!

2281_solidarietaCome ci ricorda in modo piuttosto chiaro il Vangelo stesso: “Da’ a chiunque ti chiede; e a chi prende del tuo, non richiederlo. Ciò che volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro. Se amate coloro che vi amano che merito ne avrete? Anche i peccatori fanno lo stesso … Amate invece i vostri nemici, fate del bene e prestate senza sperarne nulla, e il vostro premio sarà grande e sarete figli dell’Altissimo; perché egli è benevolo verso gli ingrati e i malvagi.” (Lc 6, 30-35)

Il dono non è sufficiente se non è presente anche il donatore! (Martin Lutero)

Questa – in apparenza banale – osservazione evidenzia che il dono è efficace se è preceduto, accompagnato e seguito da una PRESENZA, quella del donatore! Paradossalmente non è possibile far recapitare un dono con il corriere, via posta, con un bonifico, o con un click del mouse, o con una firma anonima su un altrettanto anonima lista “nozze”! Quello eventualmente è un REGALO, ma non un DONO.

La vera felicità del dono è tutta nell’immaginazione della felicità del destinatario: e ciò significa scegliere, impiegare tempo, uscire dai propri binari, pensare l’altro come un soggetto: il contrario della smemoratezza”. Il dono esige la creazione di un contesto ermeneutico fatto da due volti!

Parlare di dono oggi nel mondo occidentale suona come qualcosa di anacronistico, qualcosa che è letteralmente demodé. Nella società capitalistica l’uomo si è abituato a comprare quasi tutto: i suoi sogni e i suoi desideri sono condizionati sempre più dalla pubblicità, intesa in senso molto ampio. Il suo immaginario, per usare una felice espressione di Serge Latouche, è stato colonizzato. Il dono ha un ruolo marginale nella sua vita.

I regali, nelle società ricche trovano posto in occasioni ben precise: il compleanno, Natale, un matrimonio, e così via; ed anche in quelle occasioni il regalo sembra rappresentare un problema più che un piacere. Cosa compro? Il mio regalo sarà adeguato? Piacerà? Ma il valore del dono va al di là di quello che comunemente la gente pensa. Ha una funzione sociale importantissima che è quella di creare legami.

Dono dunque siamo. Non sono: ma siamo! Io dono e questo fa sì che esistiamo almeno in due. È l’antidoto all’anti-dono per eccellenza che è la “mano di Adamo”. Adamo “prende e porta a casa e … rovina”. Il dono “ben –fatto” invece è tale che tu “prendi e porti fuori” e questo non è per nulla scontato, se è vero che spesso, la prima parola che il bambino pronuncia non è “mamma” (icona del dono) ma “mio” (avvelenamento del dono). Il dono in questo senso costituisce il terzo paradigma (tra individualismo metodologico e olismo)

Cartesio formulò il celeberrimo adagio: Cogito ergo sum (penso dunque sono). Forse sarebbe stato più corretto e realistico dire Cogitor ergo sum (sono pensato dunque sono). Lo stesso vale anche per il dono: il dono che offro mi fa esistere e fa esistere anche la persona a cui dono, perché il mio dono dice che lei “è pensata” da me, quindi esiste!

A questo punto è necessario soffermarsi anche sui termini, per cogliere le sfumature di realtà che essi contengono; realtà che non sono sempre equivalenti: Dono o Regalo? Dono o Beneficenza? Dono e super-dono: per-dono? Ti faccio un PRESENTE! (il dono che fissa un instante di tempo). Queste sfumature terminologiche portano con sé anche un’ambiguità in chi lo riceve. Alla consegna di un dono, si sente spesso dire: “Non ti dovevi disturbare!”

Siamo in prossimità del Natale e questo è il periodo per eccellenza in cui emerge il tema del dono in tutta la sua “ars retorica” o ambiguità ideologica: “non basta fare il bene (dono): il bene (dono) va fatto bene (donandosi)” (S. Alfonso M. de Liguori).

Si può persino usare il dono – pensiamo agli interventi umanitari – per mascherare il male operante in una realtà di guerra. Quest’ambiguità che pesa sul donare e può pervertirne il significato non è nuova: “Timeo Dànaos et dona ferentes” (Virgilio, Eneide II,49), “Temo i greci, anche quando portano i doni!” (il dono vissuto come il mitico Cavallo di Troia, usato per espugnare la vita dell’altro, un’altra fortezza: conquistare la stima, la simpatia, per ottenere una lapide, per poter ben riposare nell’occhio dell’altro, …). D’altra parte … a noi piace piacere! E quale modo migliore che usare anche del dono, per aumentare il proprio personale indice di gradimento?

Siamo di fronte ad una forte banalizzazione del dono che viene depotenziato e stravolto anche se lo si chiama “carità”: oggi si “dona” con un sms una briciola a quelli che i mass media ci indicano come soggetti – lontani! – per i quali vale la donazione2pena provare delle emozioni, almeno per qualche istante!

Dei rischi e delle possibili perversioni del dono noi siamo avvertiti: il dono può essere rifiutato con atteggiamenti di violenza o nell’indifferenza distratta; il dono può essere ricevuto senza destare gratitudine; il dono può essere sperperato: donare, infatti, è azione che chiede di assumere un rischio.

Ma il dono può anche essere pervertito, può diventare uno strumento di pressione che incide sul destinatario, può trasformarsi in strumento di controllo, può incatenare la libertà dell’altro invece di suscitarla. I cristiani sanno bene come nella loro storia persino il dono di Dio – la grazia – abbia potuto e possa essere presentata come una cattura o un asservimento dell’uomo, che novello Prometeo, si ribella ad una simile consapevolezza di questo legame distorto con Dio.

Situazione dunque disperata, la nostra oggi? No! Donare, così come amare e fare fiducia, è un’arte che è sempre stata difficile: l’essere umano ne è capace perché è capace di rapporto con l’altro, ma resta vero che questo “donare se stessi” – perché di questo si tratta, non solo di dare ciò che si ha, ciò che si possiede, ma di dare ciò che si è, e questo richiede una convinzione profonda nei confronti dell’identità propria ed altrui (CONNESSIONE E IDENTITA’: tutti sanno dove sono, ma non sempre io so chi sono, o faccio sapere agli altri chi sono e come tale cosa dono, quando mi trovano?).

Chi è l’altro? O è l’inferno – come scriveva acutamente Jean-Paul Sarte – o è un dono che riconosco donando all’altro me stesso! Cosa può essere la società, la polis? Una communitas, un mettere insieme i doni (cum-munus), oppure il non riconoscimento, il rifiuto dell’altro attraverso una immunitas, una chiusura assoluta! Donare all’altro, agli altri, non è solo una forma di riconoscimento comunitario, sociale, ma è il modo necessario per entrare nell’alleanza della communitas.

Nella coscienza degli uomini, nelle strutture di umanizzazione, non c’è solo la passione per l’utile, ma c’è anche la ricerca del legame, della relazione che sa generare la generosità, l’amore, l’alleanza. Spesso il comportamento individuale sembra dettato solo dalla pulsione philautica, egoista, che cerca unicamente il proprio interesse; eppure sempre si conoscerà l’eccedenza del dono, perché l’essere umano è sempre capace di operare il bene, percependo la propria insufficienza e cercando l’altro per una pienezza di vita, che egli non possiede in sé. Per questo, nonostante le dominanti colturali contraddicano talvolta la logica del dono, persiste l’evento del dono.

Donare significa per definizione consegnare un bene nelle mani di un altro senza ricevere in cambio alcunché: nel donare c’è un soggetto, il donatore, che nella libertà, non costretto, e per generosità, per amore, fa un dono all’altro indipendentemente dalla riposta che ne riceverà.

La logica del dono, infatti, non si misura sull’equivalenza dello scambio ma è quella di un’offerta unilaterale e gratuita.

Donare appare dunque come un movimento asimmetrico, unilaterale, che nasce da spontaneità e libertà. Perché? Possono essere molti i tentativi di risposta, ma credo che il donare sia possibile perché l’essere umano ha dentro di sé la capacità di compiere questa azione senza calcoli: è capax boni, è capax amoris, sa eccedere nel dare più di quanto sia tenuto a dare.

giotto

Giotto. Il dono del mantello. 1290-99. Affresco. Assisi Basilica Superiore di San Francesco.

È questa la grandezza della dignità della persona umana: sa dare se stesso e lo sa fare nella libertà! È l’homo donator (vr. Homo oeconomicus)! Certo c’è un rischio da assumere nell’atto del donare, ma questo rischio è assolutamente necessario per negare l’uomo autosufficiente, l’uomo autarchico.

E se il dono non riceve ritorno, in ogni caso il donatore ha posto un gesto eversivo: attraverso il donare ha acceso una relazione non generata dallo scambio, dal contratto, dall’utilitarismo. Ha iniziato un movimento “contro natura” (contro la mano di Adamo che prende e porta a casa e … rovina), ha impresso una diastasi nelle relazioni, nei rapporti, fino a porre la possibilità della domanda sul debito “buono”, cioè il “debito dell’amore” che ciascuno ha verso l’altro nella communitas!

Resta però vero che il dono reca in sé, costitutivamente, qualcosa di paradossale, qualcosa di ibrido, perché è doveroso e insieme libero, utile e insieme gratuito. E’ in certo senso doveroso, cioè dettato da usi, consuetudini appartenenti alla tradizione o alla cultura: ci sono occasioni codificate che rendono il donare un atto “doveroso”, suggerito da ciò che tutti reputano buona cosa. Ma questo dovere non può essere un obbligo, un’obbedienza ad una legge che si onora senza convinzione e senza desiderio. E così che emerge la paradossalità del dono, un atto di libertà che lascia il destinatario libero dal contraccambiare il dono. Solo nella libertà il dono è veramente tale, perché se c’è qualche costrizione di qualsiasi tipo, il dono è almeno viziato e destinato alla dissoluzione.

Ora è proprio da questa condizione di libertà che possono apparire l’utilità e la gratuità del dono. In che senso il dono può essere utile, senza per questo inscriversi nella logica dell’interesse egoistico, del dare per ricevere il contraccambio? C’è utilità nel donare perché il donare ha senso e produce senso. Donando noi rispondiamo ad un bisogno che è nella nostra interiorità, perché non essendo autosufficienti, solitari, “monadi”, sentiamo il desiderio dell’altro. Abbiamo bisogno dell’altro al quale fare dei doni, dare noi stessi e ciò che abbiamo, senza mai strumentalizzarlo.

L’altro, vero grande mistero davanti a ciascuno di noi, l’altro che desideriamo, l’altro che invochiamo, l’altro con il quale non siamo più soli, risveglia in noi il desiderio del dono e ci chiede il meraviglioso scambio del donare e del ricevere, per stare bene insieme.

Il Profeta di Gibran Khalil Gibran – Il Donare (PDF)