«Questa è Maria!». Padre Mario solleva con delicatezza un fagottino col pigiamino bianco e rosso: Maria, con gli occhi un po’ stralunati di chi è stata rapita al suo riposo, resta comunque placida e serena tra le braccia del camilliano. È una bimba di tre mesi ed è in questi giorni il simbolo dell’ospedale Redemptoris Mater di Ashotsk, fiore all’occhiello della presenza cattolica in Armenia. La bimba è nata e sopravvissuta solo per l’amore e la dedizione di quanti qui si spendono per portare sollievo alle sofferenze di una terra martoriata, soprattutto a quelle dei più poveri.
Conoscevano bene la giovane mamma, i suoi problemi e le sue paure, perciò l’hanno tenuta per quattro mesi in ospedale per timore che volesse abortire. Quando Maria è nata, la mamma non l’ha riconosciuta, non l’ha neanche voluta vedere.
L’ha lasciata lì, e la sua prima famiglia sono diventati i medici e gli infermieri del Redemptoris Mater. Ora, fortunatamente, sembra che si sia trovato chi l’adotterà. Il suo sorriso ha trovato un futuro.
È solo una delle tante storie che si possono incontrare in questo avamposto della misericordia nella periferia settentrionale dell’Armenia, ai confini con la Georgia. L’ospedale, costruito a duemila metri in una zona chiamata “la Siberia dell’Armenia” (d’inverno si raggiungono anche temperature di -35°, a volte -40°), venne inaugurato nel 1991 per volontà di Giovanni Paolo II, che fece convogliare in quest’opera le offerte ricevute dalla Caritas dopo il terremoto che devastò l’Armenia nel 1988. La struttura venne quindi affidata ai camilliani, e da allora ne è responsabile padre Mario Cuccarollo, un vicentino (di Cartigliano) inossidabile, concreto, appassionato. Dietro i suoi occhi sorridenti brilla un certo orgoglio quando ci racconta come l’ospedale abbia rinnovato tutto il servizio sanitario della regione. «Con il grande corpo centrale prefabbricato, i suoi 92 posti letto e con i 21 ambulatori sparsi sul territorio per un arco di circa 33 chilometri — ci spiega — serviamo una zona che coinvolge circa 15.000 persone. In realtà, visti i servizi che forniamo quasi gratuitamente, vengono da noi da tutta l’Armenia, perfino dalla capitale Yerevan, e anche dalla vicina Georgia». È così che il camilliano, insieme a uno staff di 145 persone (tra i quali un altro sacerdote, padre Akaki, e suor Noëlle, delle Piccole sorelle di Gesù) garantisce ogni anno 3.000 ricoveri e assistenza per circa 100.000 pazienti.
Ancora oggi l’ospedale sopravvive grazie ai contributi della Conferenza episcopale italiana (che lo finanzia per circa il 40 per cento) e di tanti benefattori. Ai pazienti (ma non a tutti: i più poveri sono completamente esentati) vengono richiesti ticket minimi: 4 euro per gli esami diagnostici anche di alto livello, 30-60 euro per un intervento chirurgico. L’attività di pronto soccorso e degli ambulatori esterni è completamente gratuita. Il tutto in una struttura che ha trapiantato nel Caucaso le caratteristiche dei centri ospedalieri gestiti dai figli di San Camillo: efficienza, pulizia, professionalità, dedizione, e soprattutto attenzione alla persona. Come ci ha spiegato il dottor Sarghis Vardanian, chirurgo e direttore sanitario: «L’ospedale è stato un grande dono al nostro popolo armeno. Dopo il terremoto che uccise 25.000 persone e devastò tutta la regione già poverissima, l’ospedale ci parve come una luce, un dono di Dio. E come un faro ha attirato e continua ad attirare i malati poveri. Questa è davvero un’oasi per tutta l’Armenia!». Basti pensare che il Redemptoris Mater è l’unico ospedale in tutto il Paese ad avere una cucina che fornisce i pasti per i propri pazienti. E tutto il cibo viene direttamente dall’Italia. Padre Mario ci mostra in dispensa l’ultimo scarico di container fatto pochi giorni prima: «Sono venticinque anni che faccio avanti e indietro!».
L’ospedale ha quattro reparti: medicina generale, chirurgia, pediatria e ginecologia e maternità. Ogni anno vengono seguiti circa duecento parti. Oltre ai servizi sanitari, l’ospedale garantisce anche un’intensa opera di assistenza a circa 800 famiglie, con distribuzione di vestiario e adozioni a distanza. E padre Mario continuamente visita i vari villaggi, casa per casa, per portare una carezza, una parola di sostegno e soprattutto per verificare problemi e necessità di ogni tipo.
Qui ad Ashotsk, dove il terremoto non ha lasciato pietra su pietra, quello che tutti conoscono come “l’ospedale del Papa” è davvero una carezza compassionevole che non guarda di chi sia il volto sofferente che ha di fronte. È luogo di testimonianza, un “ospedale da campo” chiamato a curare ferite del corpo e dell’anima. Siamo a circa quaranta chilometri da Gyumri, la città dove sabato 25 giugno Papa Francesco incontrerà la comunità cattolica e celebrerà la messa. «L’attesa del Pontefice — ci dice padre Mario — qui è spasmodica: Francesco viene atteso come la persona più importante del mondo». Sarebbe bello, continua, «che potesse venire a vedere di persona ad Ashotsk questo frutto della carità», qui dove vive lo spirito di san Camillo e le sue “cento braccia” lavorano per tutto il popolo armeno.
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