Tra i sentimenti che attraversano la nostra vita, la paura è il più “democratico”. Non dimentica o trascura nessuno e chi dice di esserne esente o è bugiardo o miope, nel senso che fatica a guardarsi dentro. Si tratta semmai di regolarla, dicono gli specialisti, di evitare che quella che nasce come meccanismo di difesa, come sirena d’allarme contro i pericoli, finisca per “suonare” all’impazzata, per trasformarsi a sua volta in nemico o in malattia. Il rischio vale sempre e a maggior ragione nei giorni del Covid, quando, se non facciamo attenzione, si rischia di vedere persino in chi ci è caro un potenziale fattore di contagio. Né di fronte alla fragilità umana che diventa più tagliente e dolorosa, bastano le consolazioni facili, le frasi edulcorate, le pacche sulle spalle. La fede stessa è chiamata a diventare più concreta, più umana verrebbe voglia di dire, più attenta ad ascoltare e provare a capire chi avverte attorno a sé soltanto buio e solitudine. «La paura è il sentimento più antico degli esseri umani – sottolinea padre Arnaldo Pangrazzi, sacerdote dell’ordine dei camilliani, cappellano all’hospice “Antea” di Roma –. Gesù stesso l’ha provata, pensiamo all’esperienza drammatica dell’orto degli ulivi. Ma in questo momento emerge anche la tristezza, in tutte le diverse sfumature fino alle sue forme più acute che sono la depressione e la disperazione. E poi c’è la collera dovuta alla frustrazione, e il senso di colpa. Il Covid-19, si nasconde nelle nicchie più impensate e in alcune persone assolutizza e ingigantisce la paura fino a produrre malattie, dalle fissazioni alle ossessioni, all’angoscia che paralizza.
Ma dobbiamo temere la paura?
In sé non è né buona né cattiva. i sentimenti sono energia e l’energia ha lo scopo di fluire, di scorrere, altrimenti come l’acqua che si blocca, ristagna e si inquina. Se invece fluiscono contribuiscono alla salute, ci rendono umani. In questo senso la paura ci può aiutare essere umi-li, a rivolgerci Dio per invocare la sua presenza, il suo aiuto così da attraversare il guado, per vivere questo temporale prolungato che stiamo attraversando.
La paura per eccellenza è però quella di morire.
La morte rappresenta generalmente un passaggio drammatico. Ma non è così per tutti, ci sono persone che l’accolgono con serenità. Io lavoro in un hospice, per cui mi trovo ad accompagnare tante persone che sono al tramonto della loro esistenza terrena, alcune negano questa situazione altri invece l’accettano. E a propria volta legate al morire ci sono diverse paure. Nella maggior parte dei casi di soffrire ma anche che il corpo perda la sua immagine perché sono ridotte a carne e ossa. E poi di diventare dipendenti dalle medicine o di perdere la lucidità, di trasformarsi in un peso per gli altri, di separarsi, magari dai bambini o dal coniuge, sentendosi in colpa per i problemi che potrebbero causarsi.
A contrastare queste paure ci sono le speranze.
Che a loro volta hanno diversi aspetti. Alcune sono legate alla scienza, ai farmaci, alla possibilità di una guarigione anche quando irrealistica. Altri hanno invece speranze per così dire “relazionali”, di rivedere un proprio caro, di poter dire addio a persone cui vogliamo bene, di ritornare nel proprio paese, oppure di vivere fino a Natale per trascorrerlo con la famiglia o di arrivare a febbraio quando nascerà un nipotino o si sposerà la figlia. Altri ancora coltivano speranze di natura religiosa, spirituali: di morire in pace, di incontrarsi con Dio e con gli altri nell’aldilà. Chiaramente per il cristiano la morte non è l’ultima la parola ma la penultima, che apre alla speranza della Risurrezione e questa nostra fede nell’immortalità ci aiuta a mitigare la sofferenza del distacco in vista di nuovi cieli, di nuove terre. La morte non è un destino ma un ponte, un cammino, verso ciò che ci attende: l’aldilà, il Paradiso.
In certi gruppi di formazione spirituale, magari anche al catechismo qualcuno si è però sentito dire che la paura non è un sentimento cristiano. Invece mi sembra di capire che ciò che è umano è anche cristiano.
Giusto, quello che è profondamente umano è anche profondamente spirituale. Purtroppo abbiamo ereditato una pedagogia che ha complicato la vita di tante persone, che cercano di fare i pompieri. Falsi consolatori che di fronte a chi soffre dicono: non avere paura, non piangere, non arrabbiarti, cerca di mantenerti calmo. Medicine frettolose, dettate anche con buone intenzioni, ma che non aiutano. Invece per essere veri consolatori bisogna imparare talvolta ad accogliere gli sfoghi, i lamenti, le preoccupazioni, occorre saper stare anche in silenzio, non puntare subito sui valori. Spesso la tendenza, anche nelle persone piuttosto religiose è bypassare i sentimenti. Diciamo a chi soffre: devi essere forte, chi crede in Dio non ha paura, pensa a chi sta più male, tranquillo che il tempo guarisce tutto, guarda avanti. Si fa appello al valore del coraggio, della fede, della fiducia senza dar tempo di sperimentare gli stati d’animo, si trasmette troppo presto la speranza. Per esempio ho sentito dire a giovani vedove: sei bella, ti sposerai di nuovo. Oppure a un genitore che ha perso il figlio: sei fortunato, adesso è in cielo, devi ringraziare Dio per la figlia che ti resta. Sottolineiamo il positivo ma non diamo spazio alla parte più sofferta, più dolorosa. Prima di annunciare la Risurrezione dovremmo essere disposti a camminare lungo il Venerdì santo. Gibran diceva: se vuoi essere più vicino a Dio stai più vicino alle persone.
Lei ne parla per esperienza diretta
Io sono l’accompagnatore spirituale di un’associazione di genitori che hanno perso figli. Con loro dobbiamo usare la terapia della comprensione, chi vuol farsi prossimo deve aiutare le persone gradualmente, prima di tutto a esprimere il proprio dolore e tutti i sentimenti che la sofferenza può portare a galla. Al tempo stesso siamo anche convinti che la vita non è tutto o solo dolore. Stiamo insieme alle persone, nei loro tsunami di sofferenza cercando di aiutarle a trasformare un po’ alla volta quella che è la disgrazia in una grazia. Ma si tratta di un cammino tortuoso, spesso lungo e ci aiuta, nel consolare, aver sperimentato a nostra volta la misericordia di Dio, essere stati guariti da qualche ferita. Si diventa presenze benefiche attraverso l’ascolto, l’uso di parole buone, con un mosaico di piccoli gesti nella vita di coloro che attraversano momenti di sconforto, di paura, di angoscia, di tristezza. Accendiamo delle piccole luci nel cammino di quelli che vivono nella paura o nel buio. Possiamo rischiararne la speranza. O infonderla.
Questo vale a maggior ragione nel mese di novembre, che ci invita a pensare a quello che avverrà dopo questa vita.
Quest’anno il Covid-19 ha sconvolto non solo la politica, la sanità l’economia ma anche il nostro territorio religioso e spirituale, in qualche modo siamo stati privati dei riti. Ci siamo svestiti anche della possibilità di dire addio alle persone o di assicurare un accompagnamento comunitario a coloro che soffrono dei lutti e delle perdite. Non si possono fare cerimonie ai cimiteri, le famiglie non si possono radunare. Siamo in una specie di digiuno spirituale della ritualità, che conforta accomuna e consola. Allora dobbiamo cercare di fortificare la nostra fede e di essere vicini come possiamo a coloro che hanno vissuto dei lutti dolorosi, ad esempio tramite il telefono , con qualche messaggio, inviando degli articoli o offrendo sussidi. C’è bisogno di sensibilità, di umanità, di spiritualità e di usare tutti i canali disponibili per aiutare le persone a sentirsi in comunione, anche in assenza di Messe in parrocchia, o delle celebrazioni al cimitero. Perché se pure aiuta andarci, soprattutto all’inizio, nei primi tempi, il cimitero non deve diventare il centro della vita. Il luogo in cui custodiamo i nostri cari è il cuore e la mente, loro dovrebbero vivere dentro di noi nella gratitudine per i ricordi, e il tempo trascorso insieme. Con la speranza, che va al cuore del cristianesimo, che la vera vita ci attende dopo, che loro hanno raggiunto la meta mentre noi siamo in viaggio ma un giorno ci ricongiungeremo.
«Noi cristiani sappiamo che non è l’ultima parola, che invece è la speranza della Risurrezione»
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