Di Angelo Scola
Cucinare è proprio della famiglia umana, prendere cibo insieme è uno dei momenti alti del vivere comune. Ogni tradizione e cultura ne ricevono un valore e un sapore che “nutrono” la persona in modo reale. L’essere insieme è indispensabile alla vita quanto le proteine e calorie che alimentano il corpo. Inoltre nutrirsi, per essere gli essere umani, è legato alla convivialità e all’ospitalità, aspetti costitutivi della comunità umana e, prima ancora, alla bontà, alla solidità e all’equilibrio delle relazioni primarie.
Si comprende bene, allora, che il “pasto comune” – come, d’altra parte, il “digiuno” – siano qualcosa di prezioso e proprio di tutte le esperienze religiose. Essi esprimono, da una parte, la convivialità e l’ospitalità per così dire in modo orizzontale e diventano simbolo efficace della condivisione col divino. Dall’altra, segnano il cammino ascetico dell’uomo verso Dio, la sia volontà di abbandonare ogni affetto disordinato. Egli diventa in tal mondo anche più solidale e sollecito col prossimo. Questi significati fondamentali si trovano, evidentemente secondo modalità specifiche, sia nella Pasqua ebraica, come gesto di memoria dei mirabilia Dei con il suo popolo, che nella prassi del digiuno propria del Ramadam, che nell’Eucarestia cristiana.
Per quanto riguarda il pasto comune come convivio, possiamo dire che in esso l’uomo compie, in modo paradigmatico, l’esperienza del bisogno, che si apre al desiderio, e della condivisione della fragilità e nell’ospitalità. Simbolo concreto di socialità giusta e di festa salvifica, nel convivio troviamo una sintesi dell’esperienza comune a ogni uomo che rispecchia l’ampiezza di senso dell’esistenza nelle sue ricche espressioni culturali e religiose.
La convivialità è, infatti, uno dei tratti essenziali dello stile di vita, che trova il suo fondamento proprio nella dinamica del riconoscimento e della reciproca narrazione.
La figura omerica del ciclope Polifemo, che non riconosce la legge dell’ospitalità e perciò vive in modo ferino fuori dal consorzio umani, diviene paradigma d’ogni assoluzione barbarica della convivenza umana. Questa, al contrario, ha alle sue radici la relazione come legame costitutivo, religioso (religio, re-ligatio), e ha la fiducia come attitudine fondamentale. Bene l’ha compreso la nostra tradizione lombarda che trova nelle pagine del capolavoro manzoniano una particolare espressione emblematica: «Il gentiluomo si raccostò al nostro Cristoforo, il quale faceva segno di volersi licenziare, e gli disse: “Padre, gradisca qualche cosa; mi dia questa prova d’amicizia”. E si mise per servirlo prima d’ogni altro; ma egli, ritirandosi, con una certa resistenza cordiale, “queste cose – disse – non fanno più per me; ma non sarà mai ch’io rifiuti i suoi doni. Io sto per mettermi in viaggio: si degni di farmi portare un pane, perché io possa dire d’avere goduto la sua carità, d’aver mangiato il suo pane, e avuto un segno del suo perdono”» (I promessi sposi, IV).
È alla scuola del Vangelo che abbiamo imparato il legame tra il cibo, i fratelli e Dio stesso. È stato lo stesso Gesù, infatti, a educare i suoi discepoli alla percezione della misura compiuta del loro bisogno di cibo: «” Datevi da fare non per il cibo che non dura, ma per il cibo che rimane per la vita eterna e che il Figlio dell’uomo vi darà […] il pane di Dio p colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo”. Allora gli dissero: “Signore, dacci sempre questo pane”. […] “I vostri padre hanno mangiato la manna nel deserto e sono morti; questo è il pane che discende dal cielo, perché chi ne mangia non muoia. Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo”» (Gv 6,27.33-34.49-51). Il dialogo tra il Signore e i discepoli non può non rinviare alla risposta di Gesù al tentatore: «Non di solo pane vivrà l’uomo» (Lc 4,4). Di che vive allora? La risposta di Gesù è la sua Eucarestia, il dono totale di sé: «Prendete, mangiate: questo è il mio corpo» (Mt 26,26). Il pane che l’uomo desidera è Dio stesso che gli si offre in dono. Solo così egli può essere definitivamente saziato. I cristiani, partecipando ogni domenica all’Eucarestia, sono introdotti nella logica del dono come legge della vita. L’esistenza umana acquista allora una forma eucaristica, il culto umanamente conveniente (Rm 12,1)
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