“Daranno ancora frutti. Religiosi, religiose e anzianità” – Libro di A. Ciairano – C. Cangià – L. Invernizzi – L. Sandrin – M. Trabucchi

Nella Quarta di copertina del libro leggiamo che «l’anzianità è tempo pieno di fecondità e di maturità costruita con la grazia di Dio, ma anche con perseveranza e fedeltà, in mezzo alle gioie, alle difficoltà e fragilità dell’esistenza. È un periodo della vita in cui religiosi e religiose “daranno ancora frutti”». Ed è proprio quello che propongono gli Autori guardando all’anzianità da diverse prospettive: geriatrica, biblica, psicologica, educativa e pastorale.

Luciano Sandrin ha scritto il capitolo su L’invecchiamento alla luce della psicologia. La psicologia dell’invecchiamento studia l’età anziana della vita con un approccio di tipo evolutivo, narrativo e contestualizzato e ci ricorda che i comportamenti della persona anziana non dipendono solo dall’età cronologica. Sono il frutto di una continua interazione tra individuo, ambiente ed esperienze vissute.

Se apriamo la Bibbia leggiamo che «nella vecchiaia daranno ancora frutti, saranno verdi e rigogliosi, per annunciare quanto è retto il Signore» (Salmo 92,15). È una visione positiva e un messaggio di fiduciosa speranza che accompagna il cammino della nostra vita, anche quando «nel tempo della vecchiaia… declinano le mie forze» (Salmo 71,9).

L’età anziana è caratterizzata da perdite e guadagni, da declini in alcune sfere di funzionamento della persona, ma anche dalla permanenza di progetti, attività, partecipazione attiva alla vita sociale. La psicologia dell’invecchiamento ha come obiettivo l’invecchiamento positivo, e cioè la possibilità di invecchiare bene se si dispone di adeguate risorse sul piano fisico, personale, intellettuale, sociale, sanitario, spirituale e religioso.

La psicologia cerca di esplorare come l’invecchiamento influisce sulla memoria, sul pensiero, sull’intelligenza, sull’emotività, sulla personalità e sulle relazioni affettive, famigliari e sociali, della persona che invecchia. Ma cerca anche di capire quale impatto hanno alcuni eventi “particolari” legati all’età che avanza, – come il pensionamento, il diventare nonni, la vedovanza, la malattia, la solitudine, l’entrare in strutture assistenziali e la vicinanza alla morte, – sulla persona che invecchia. I disturbi intellettuali possono essere legati a vere e proprie malattie, ma possono essere connessi a condizioni famigliari, ambientali, lavorative, sociali o di salute globale, e non comunque all’invecchiamento in quanto tale.

Il sentimento di identità è il filo rosso che dà senso e coerenza al racconto della propria vita e alle esperienze che la definiscono. Può essere vissuto con tranquillità o subire improvvise “interruzioni biografiche e narrative”. La persona anziana può vivere serenamente lo scorrere del tempo perché in esso si sente ancora protagonista o sentirsi invece improvvisamente inutile, inadeguata e paurosa di perdere il controllo di sé, del proprio corpo e di non essere più in grado di affrontare le nuove situazioni. Anche nella vita comunitaria molto dipende dal “sentirsi in buone mani”, dalla fiducia reciproca e dall’affidarsi che ne consegue.

Per invecchiare bene ogni individuo deve adattarsi, non in maniera passiva ma creativa, ai cambiamenti che vive: accettandone le perdite ma cogliendone anche i possibili guadagni, le nuove opportunità per mettere a frutto i “talenti” che rimangono. Un buon adattamento all’invecchiamento non è solo una questione individuale ma il risultato di una “negoziazione” e di una “con-laborazione” sociale. Per invecchiare bene è comunque importante sentire (o ritrovare) una propria continuazione di identità, la percezione di una biografia personale che si sviluppa, pur nel variare delle situazioni e delle esperienze che si stanno vivendo. Se è positivo, anche nella vita consacrata, trovare forme di impegno oltre la pensione, è più “sano” un graduale “non trattenere” e un intelligente “lasciar andare”. Ma questo può essere più facile se anche la persona non si è identificata solo con il ruolo lavorativo o con “seducenti” ruoli di potere.

La vecchiaia è una crisi che coinvolge tutto il gruppo famigliare e comunitario, una specie di test che porta alla luce dinamiche sopite, fragilità negate ma anche risorse insospettabili. E questo, in modo particolare, quando si è in presenza di malattie o disabilità importanti. La malattia obbliga i membri della famiglia o della comunità a interrogarsi sul senso delle loro relazioni, sull’importanza del prendersi cura gli uni degli altri, sul senso della vita (della fragilità e della morte) e su ciò che all’interno delle generazioni si trasmette, si eredita o è destinato a scomparire. La malattia dell’anziano e la sua disabilità possono essere anche un’occasione di crescita, di una nuova resilienza dell’intero gruppo famigliare e comunitario, ma anche di una riconciliazione con se stessi e con gli altri.

Anche quando viviamo in una “comunità di vecchi” la domanda è se non si tratta di una “comunità vecchia”, “invecchiata male”, “depressa”, chiusa al futuro e alla speranza. Perché il compito di “invecchiare bene” non riguarda solo le singole persone ma anche le comunità nelle quali vivono e la salute delle relazioni.

Il problema principale nel rapporto con le persone anziane è che tendiamo a negare “l’anziano” che, con il nostro invecchiamento, lentamente si sveglia dentro di noi e richiama la nostra attenzione. La sfida del prendersi cura delle persone anziane, anche nelle comunità, è che siamo chiamati a fare del nostro modo di invecchiare, e delle fragilità che comporta, la “fonte” della compassione verso noi stessi e verso le persone anziane che vogliamo aiutare.

p. Luciano Sandrin MI