Commento al Vangelo – 28 Agosto 2022

Padre Gianfranco Lunardon, Vicario generale dell’Ordine, nel mese di agosto sarà ospite della trasmissione di Radio Vaticana “Lampada ai miei passi” per commentare il vangelo domenicale.

Il programma, che andrà in onda ogni venerdì alle 6.35 e in replica alle 20.30, è curato da Monia Parente e potete ascoltarlo cliccando qui

XXII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO – 28 agosto 2022

 La virtù dell’umiltà che dovrebbe strutturare la vita cristiana, tout court, sembra essere il filo rosso che attraversa anche le letture bibliche di questa XXII domenica del t.o.

Mi introduco con la splendida immagine che usa san Francesco nel Cantico di Frate Sole, quando collega l’umiltà all’acqua: «Laudato sii per nostra sorella acqua, la quale è molto umile, preziosa e casta». 

Perché l’acqua? Perché scende, non sale, scende sempre fino al punto più basso, a differenza del vapore che sale. Infatti il vapore è simbolo della superbia, della vanagloria: l’inconsistenza del vapore che sale, ma senza sostanza. L’acqua invece che è sempre apportatrice di vita e di rigoglio e di benessere, scende sempre.

Questa virtù non viene trattata da sola e per se stessa, ma è sempre connessa, anzitutto, alla carità. Non serve a nulla essere umili se questo non aiuta a vivere con maggiore verità di vita, la carità.

Addirittura ci sono delle forme di umiltà (una volta si sarebbe definita “umiltà pelosa”), non genuine proprio perché non sono legate alla carità.

Poi c’è la connessione, per eccellenza, a Cristo Crocifisso, che è il prototipo dell’umiltà: «Da ricco che era, si fece povero» (2Cor 8,9), «si è abbassato, facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce » (Fil 2,6-8).

L’umiltà (dal latino humus = terra, è la stessa radice etimologica di homo=uomo) è la capacità di essere terra davanti a Dio; di porsi davanti a Lui essendo ciò che si è, lasciando a Lui la possibilità di prendersi, in noi, il suo spazio.

L’umiltà è la condizione interiore di chi ha finalmente occupato il giusto posto davanti a Dio. Quello della creatura davanti al suo creatore.

Non si tratta quindi della virtù di abbassarsi per stare al di sotto delle proprie possibilità o talenti personali, ma di riconoscere, nella verità, il posto di Dio nella propria esistenza, o se si preferisce, il proprio posto nel cuore di Dio.

Tutti gli altri modi di stare al mondo ci costringono, invece, a mendicare visibilità e a vivere in una continua schiavitù rispetto all’occhio altrui, alla stima altrui, alla considerazione altrui.

Nella prima lettura tratta dal Siracide, il saggio d’Israele Ben Sira ci offre una riflessione sull’umiltà, dove l’autore espone i vantaggi dell’umiltà e della mitezza sulla presunzione intellettuale e l’insipienza del superbo.

“Compi le tue opere con mitezza” ossia sii consapevole del tuo limite. L’uomo cosciente della propria natura, non deve cercare realtà più grandi di sé: per lui è sufficiente prendere in considerazione le cose che il Signore gli comanda e non quelle nascoste, non deve affannarsi in cose superflue.

Mentre l’orgoglio e l’alterigia cercano il proprio sapere in cose astruse, il saggio si intrattiene sulle parabole e le studia attentamente facendone oggetto di profonda riflessione.

Anche nella lettera agli Ebrei possiamo leggere un richiamo all’umiltà, e alla semplicità quando l’autore sacro ci ricorda che l’incontro con il DIO di Gesù non ha avuto bisogno di segni eclatanti (il fuoco), spaventosi (la tempesta), roboanti (gli squilli di tromba) ma è avvenuto nella serenità dell’adunanza festosa, nella città del Dio vivente ma silenzioso, che parla per mezzo dei giusti, senza segni spaventosi e misteriosi.

Il brano del Vangelo di Luca descrive con una certa ironia, tendente al sarcasmo,  il banchetto a cui Gesù partecipa, a casa di uno dei capi dei farisei. Il banchetto è il simbolo del regno di Dio, cioè della storia umana nel suo sbocco ideale.

La logica che presiede alla scelta di un posto piuttosto che di un altro, non vuol essere una semplice norma di galateo: Gesù pensa piuttosto al posto di ognuno davanti a Dio e insegna che alla gratuità dell’invito non si risponde cercando di farsi avanti, ma accettando di ricevere gratuitamente.

La cosa che più cerchiamo è la relazione e l’amore e non ci rendiamo conto che per entrare in relazione bisogna appunto saper perdere la faccia, accogliere la nostra debolezza di cui quella del fratello è il riflesso.

Salvaguardare invece un proprio ruolo, un posto, ci pone in stato di assedio, di timore dell’altro, di durezza, per difendere la propria posizione acquisita. Creiamo il vuoto attorno a noi perché la nostra paura, ci fa paura.

Con Dio è la stessa cosa. Spesso, anche davanti a lui poniamo i nostri i meriti, con la recondita speranza di mandarli all’incasso!

Accettare invece la nostra parte più debole, quella che ci umilia, è forse il modo più semplice per entrare in contatto con il Signore della nostra vita.

Pensavo a questo meditando sul rito delle ceneri, all’inizio della quaresima che in fondo è un rito di umiltà: «Ricordati quello che sei, ricordati che sei cenere!». A me piace aggiungere: «Ricordati di quello che saresti, se il Signore non ti avesse salvato, se non ti avesse dato un’anima… tu, allora si’, saresti solo cenere».. Non si tratta, qui. di fare tanto una mistica del limite, quanto di accettare la nostra fragilità, come nuova ripartenza.

L’ultimo posto è il luogo dove tu incontri te stesso, dove, magari in penombra, scopri il tesoro da donare ai commensali. Chi è al primo posto è scombussolato dai flash, dai saluti, è impegnato a comparire, è nella confusione delle strette di mano.

L’ultimo posto è un regalo da vivere, quasi un privilegio, perché è là che incontri il vero te stesso, è là che incontri gli altri.

Solo a questo punto siamo in grado di invitare a pranzo, di organizzare noi una nuova tavola, con dei nuovi criteri, più umani, più cristiani, più fraterni.

Adesso sei tu che inviti. Hai vissuto l’ultimo posto sulla tua anima, e sai cosa vuol dire.

Ora tocca a te: stai organizzando un momento conviviale, invita chi è ai margini, chi non può invitarti, chi a te proprio non ci pensa.

Quale è, dunque, l’umiltà che ci fa realmente crescere?

La risposta non è difficile: l’umiltà non consiste né nell’essere piccoli e neppure nel sentirsi piccoli, ma nel farsi piccoli. Gesù manifesta la sua umiltà lavando i piedi e ancora di più sulla croce, continuando ad annullarsi, per così dire, a donarsi.

Non serve a niente essere umili, se non per servire di più, per amare di più, per donare di più.

E qui voglio ricordare la Regola di San Benedetto, nella quale i gradi dell’umiltà sono inversamente strutturati rispetto ai gradi dell’amore. Più uno scende nei gradi di umiltà, e più sale nei gradi dell’amore.

L’umiltà si misura e si verifica dalla effettiva ed affettiva disponibilità a servire.

La chiave interpretativa ce l’ha fornita lo stesso papa Francesco in una sua catechesi: «C’è un segno, un segnale, l’unico: accettare le umiliazioni. L’umiltà senza umiliazioni non è umiltà. Umiltà è accettare le umiliazioni quando vengono, come Gesù le ha sopportate ed «è stato capace di custodire il germoglio, custodire la crescita, custodire lo Spirito».

In sostanza ‘non è il posto che fa la persona, è la persona, al massimo, che fa il posto”. E allora, perché perdere la pace per un posto? Per una volta tanto, che non c’è una graduatoria di cui preoccuparsi, perché sgomitare a tutti i costi?

Godiamoci la festa, godiamoci la compagnia!