Intendiamo per santità una qualità di vita meritevole di grande rispetto. Il santo evoca un eccellente livello morale nelle azioni e nella vita, per cui suscita riverenza e alta considerazione. Nel concetto cristiano evoca, in più, coloro che riconoscono Gesù come loro Signore, vivono nella orbita santificante e redentrice, operano conforme allo Spirito di Dio, producono frutti di santità, che sono, in definitiva i frutti dell’amore. Delle santità cosi interpreta la chiesa ci presenterà ufficialmente, il 4 maggio prossimo un nuovo modello in p. Enrico Rebuschini. Santità nella veste di tutti i giorni, è detto nel titolo che si è dato a questa presentazione, che non vuol dire santità feriale, cosi alla buona, tagliata giù in qualche modo, valida per palati non troppo esigenti, anche generosa, non priva di fascino, ma un po’ a corrente alternata. Questa può essere la santità nostra, nostra di gente feriale, bisognosa di molta indulgenza. Ma p. Enrico non era un uomo feriale. Certo, sul piano di realizzazioni umane, o di notorietà oltre gli stretti confini di Como, Verona e Cremona, le tre città dove è vissuto, non si potrà dire di lui ch0era persona eccezionale. Non è il caso di sprecare per lui sinonimi come straordinario, modello raro e unico, trascinatore di folle o altro. Il lessico della sanità, per rappresentare la figura di p. Rebuschini, si avvale di titolazioni più modeste, che rileviamo dai processi canonici. Le faccio rimbalzare qui nella sala, lasciandone a voi la validazione e l’apprezzamento.
«Tuttavia tutto con carità e dolcezza infinita», dichiara ai giudici del tribunale Virginia Casati in Rebuschini, cugina di acquisto, che l’ebbe ospite nella sua casa di Capiago. Le fa eco la nipote Delia Rebuschini Vitali, che ci scrive in data 10 maggio. 1988:«Mai dimenticherò quella figura umile e ascetica. Indimenticabile sono le sue messe, che elevano noi tutti ad una spiritualità mai provata. La sua presenza è perennemente viva in me e accompagna i dolorosi travagli della mia vita». S’era sposata ad un nipote, Enrico anche lui, del nostro Beato, medico, due settimane prima ch’egli morisse: accorse anche lui al capezzale di p. Enrico morente. Avrà a ricordo il suo rosario che stringerà nelle mani morendo in prigionia in Egitto, il 20 maggio 1941.
Aveva una capacità di voler bene alla gente che nessun motivo poteva oscurare, e quando sul piano umano ci potevano essere oggettive riserve ad amare, soccorrevano le motivazioni dello spirito. Dio non guarda ai lati brutti delle persone, e lui doveva misurare la sua condotta su quella di Dio «Siate figli del Padre nostro celeste, che fa sorgere il sole sopra i malvagie sopra i buoni e fa piovere sopra i giusti e gli ingiusti» (Mt 5,45). Il suo era un amore sereno, che il lungo allenamento rendeva spontaneo; un amore paziente e discreto, che non s’imponeva, non chiedeva il ricambio, non infastidiva la gente, ma l’attirava, la conquistava. È così l’amore che Dio nutre per noi.
Molti testimoni sottolineano la sua accoglienza e ospitalità per chiunque, amico o che vedeva per la prima volta, persona gradevole o con tratti urtanti, intelligente o piuttosto tardo. Non metteva in conto sgarbi o cattiverie di cui è fertile la vita sociale e anche quella comunitaria. Ogni uomo riflette per lui l’immagine di Dio, immagine tante volte opaca, che costituisce una difficoltà seria per noi «santi feriali», ma non per lui, abituato da lunga disciplina a guardare i lati buoni delle persone e a scoprire, nel groviglio delle esperienze umani che le avevano abbruttite, qualche filo di luce positivo, qualche flebile raggio di Dio. Ma fosse stato anche del tutto opaco qualche suo interlocutore, egli non si autorizzava a giudicarlo. L’attitudine della benevolenza costituiva per lì «l’habitus» di tutti i giorni. Nessuno si sentiva escluso dalla sua affezione. Su tutti riversava le ricchezze di umanità che aveva nel cuore e che egli aveva coltivato per essere di effettivo aiuto agli altri.
Durante il noviziato, mentre costruiva l’edificio della sua personalità religiosa, avverte in se stesso la tendenza a criticare, e tanti modi d’antipatia, anche di avversione. Un giorno si rimprovera di non aver potuto contare neppure uno sguardo di carità. E subito si propone di coltivare l’amorevolezza, d’essere animato da grande rispetto nei confronti dei suoi compagni, di star con loro «nell’amabilità e nelle disposizione di effondere tutto me stesso per il loro massimo bene»
Tutti riconoscono in lui capacità di meditazione tra tendenze opposte, il tatto nello smussare gli angoli e nel dirimere controversie, la naturalezza nel dare consigli giusti, senza essere pedante e opprimente.
Aveva chiaro il senso dei suoi limiti, per cui, per esempio, quando nel 1934, fu nominato di nuovo superiore a 74 anni, considerò quella manifestazione di fiducia come «una prova per la casa e insieme per il misero eletto», e passò la notte intera in cappella davanti al S.S. Sacramento. Infinite volte percorse il breve tratto che separava l’ufficio dalla cappella, quel tratto era per lui una corsia privilegiata, e confidava la convinzione che in quel modo, avrebbe agito giustamente.
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